Peter Del Monte, compagno di viaggio
Se ne è andato lunedì scorso, a 77 anni, in una clinica romana, con accanto la compagna Marina e la figlia Emilia.
Una lunga ed estenuante malattia ci ha sottratto Peter Del Monte, regista nato a San Francisco nel 1943, di madre tedesca e padre napoletano: uno che – dopo aver conseguito la laurea in Lettere all’Università La Sapienza di Roma, con una tesi sull’estetica cinematografica – si iscrisse al Centro Sperimentale di Cinematografia, rinunciando consapevolmente alla carriera da insegnante. Perché – come ammetteva lui stesso – il silenzio era la sua dimensione e nel silenzio è difficile comunicare con una classe di studenti.
Semmai, il silenzio più si attaglia a un cinema in cui è l’immagine, e non gli eccessivi dialoghi, a prevalere: come nei film di Bergman e Antonioni, i preferiti da Del Monte, che al Centro Sperimentale aveva avuto come insegnante Roberto Rossellini, da lui definito «non [..] un riferimento cinematografico, quanto una figura genitoriale. […] Al contrario di me si presentava come una figura solare, aperta, non nevrotica, senza paure».
Il silenzio, la rarefazione delle parole, quasi a voler proiettarsi oltre il frastuono inutile del mondo che conosciamo, sono la cifra stilistica di Peter Del Monte: del suo cinema di incontro e scontro tra fantasia e realtà, di figure femminili problematiche e singolari, irrisolte e sognatrici, di trasparenze e vuoti.
Come in “Irene, Irene” (1975), suo primo film e già candidato al Nastro d’Argento, che racconta lo smarrimento, la perdita di qualsiasi presunta certezza da parte di Guido (Alain Cuny), magistrato sessantenne che – di ritorno a casa in un giorno qualunque – scopre che la moglie se ne è andata; o come in “L’altra donna” (1980), film con il quale ottiene una menzione speciale della giuria al Festival di Venezia. Qui è un’amicizia tra due donne – la borghese Olga (Francesca De Sapio) e la proletaria Regina (Fantu Megasha) – agli antipodi nel fisico, nel carattere e nell’ambiente di vita, a ergersi al centro di una narrazione che focalizza ancora una volta sul senso di smarrimento provocato dalla scomparsa di una persona dal proprio orizzonte emotivo.
C’è, poi, anche l’affresco plurigenerazionale di “Piso Pisello” (1981), con cui Del Monte vince a Venezia il Premio Unicef, storia di genitori ex-sessantottini rimasti adolescenti e di un adolescente maturo, Oliviero (Luca Porro), che si ritrova padre a tredici anni; e lo strampalato, notturno, picaresco road-movie rappresentato da “Invito al viaggio” (1982).
Il viaggio reale o metaforico (a tratti, anche il vagabondaggio alla ricerca di qualcuno o qualcosa, come nel neorealista “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica, 1948), l’amicizia di anime e caratteri contrapposti, il femminile come mistero e insieme scoperta sono alla base anche di “Piccoli fuochi” (1985), Nastro d’Argento per il miglior soggetto originale, del film a episodi “Tracce di vita amorosa” (1990), entrambi con l’allora compagna di vita Valeria Golino; e del poetico e malinconico “Compagna di viaggio” (1996), storia dell’incontro tra Cosimo (Michel Piccoli), un anziano professore universitario affetto dal morbo di Alzheimer, e Cora (Asia Argento), ventenne cameriera assoldata per seguirlo con discrezione, quasi da lontano. Un film intessuto più che mai di gesti e di silenzi, premiato con la Grolla d’Oro per la miglior regia e il Globo d’Oro come miglior film dell’anno, e per il quale la Argento – appena ventiduenne – vince il David di Donatello.
“Giulia e Giulia” (1987) costituisce, invece, una sorta di unicum nella carriera del regista, sia per il cast interamente composto da divi (Kathleen Turner, Gabriel Byrne, Sting), sia per l’allora inedita tecnologia di ripresa (la videocamera Sony Hdvs, un sistema analogico ad alta definizione, sotto la supervisione di Giuseppe Rotunno come direttore della fotografia); oltre che per la particolarità della narrazione, sospesa psicoanaliticamente tra sogno, allucinazione e realtà. Un ritratto di donna (la Giulia del titolo), irrimediabilmente scissa, sospesa tra due vite: una pellicola in cui è il tema del doppio, della frantumazione dell’identità a essere sviscerato, nei suoi risvolti più ambigui e kafkiani.
La fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio vedono Peter Del Monte cimentarsi in nuovi racconti di varia umanità, da “La ballata del lavavetri” (1998) – con Kim Rossi Stuart nei panni di un giovane immigrato polacco alle prese, insieme alla sua famiglia, con un difficile e sofferto adattamento a una Roma pasoliniana, caotica e misteriosa – a “Controvento” (2001), con Valeria Golino e Margherita Buy, ancora un affresco al femminile problematico e denso di tonalità.
Alla fine della carriera, due pellicole – “Nelle tue mani” (2007) con Kasia Smutniak e “Nessuno mi pettina bene come il vento” (2014) con Laura Morante – concludono idealmente la sua parabola artistica con l’ennesimo omaggio alla bellezza e complessità del mondo delle donne, delle loro storie tutte diverse fra loro ma accomunate da una sempre presente, indomita energia vitale (vedi, appunto, la Mavi moglie infelice del primo film, come la scrittrice nevrotica e la ragazzina istintiva dell’opera ultima, che riprende nel titolo un verso di Alda Merini).
Peter Del Monte era, come molti artisti, un visionario, con uno sguardo spalancato sul futuro del cinema e presago di molte sue evoluzioni, come si deduce dalla lunga intervista con lo psichiatra e critico cinematografico Ignazio Senatore, contenuta nel libro (“Peter Del Monte. Un regista controvento”): «Un regista domani dovrà trovare il modo di vivere d’altro, così come gli scrittori. Sono pochi i letterati che vivono di libri; chi fa l’impiegato, il medico, chi l’insegnante…e così sarà per chi fa il regista. Non si vive e non si vivrà più di cinema, per chi fa l’autore, eccetto rari casi. Quando ero giovane io, ci si poteva ancora campare. E non è stato necessariamente un bene, ha creato in molti illusione, attesa, per me per esempio causa di conflitto e sofferenza, perché confidando nel cinema come mezzo di sussistenza, mi ha spesso tolto libertà di scelta. […] Quelli che nascono senza il culo coperto si contano sulle dita di una mano. Da qui il rischio di un forte limite, di un cinema omologato, non variegato, borghese, educato, corretto, nella migliore delle ipotesi ‘sensibile’. Un cinema con il senso di colpa, che non alza la voce, debole, timido e impaurito».
Un rischio, quello paventato nelle parole di Del Monte, pienamente scongiurato e sconfitto dal suo stesso cinema: umanista, controcorrente, sincero.