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    Stefania Cava - stefania.cava@alessandrianews.it  
    30 Agosto 2015
    ore
    00:00 Logo Newsguard

    Con l’ego fuori dalla porta

    Abbiamo incontrato Matteo Cerboncini, chitarrista e componente dei Mamasuya. Con lui abbiamo parlato di musica, di progetti e di quello che succede quando si lascia l'ego fuori dalla porta della sala di registrazione

    Abbiamo incontrato Matteo Cerboncini, chitarrista e componente dei Mamasuya. Con lui abbiamo parlato di musica, di progetti e di quello che succede quando si lascia l'ego fuori dalla porta della sala di registrazione

     MUSICA – Ci sono molti motivi per decidere di diventare un musicista. La notorietà, tanto per cominciare. La voglia di stare su un palco – piccolo o grande, poco conta – per far sentire al mondo la propria idea di musica, o per lo meno il proprio modo di suonarla. C’è chi diventa musicista perché spera nei guadagni, chi se l’è promesso da bambino. E poi ci sono quelli – pochi e fortunati, a dire il vero – che hanno avuto la possibilità di combinar talento ed opportunità, un’infanzia a ritmo di musica e un amore viscerale per accordi e melodie. Matteo Cerboncini – classe 1986, genovese di nascita, doriano di fede, fresonarese di provenienza – fa parte dell’ultima schiera. Lo abbiamo incontrato per parlare con lui di progetti futuri, di lezioni imparate e, ça va sans dire, di musica.

    Con la tua chitarra hai girato parecchio: Grignani e Dolcenera, Alexia, Fausto Leali, Alan Sorrenti, Donatella Rettore…
    Sì, ho vissuto un bel periodo su e giù dal palco. Anche se in realtà quello è lavoro e, per il mio modo di veder le cose, è diverso dal fare musica. Devi preoccuparti di tutte le altre faccende, resta poco spazio per far caso a quello che stai suonando.

    Dopo tanti anni accanto ad una chitarra, la domanda è d’obbligo. Cosa vuol dire fare musica?
    Per come la intendo io, la musica suonata è quasi una meditazione. Mi spiego meglio: ci si trova, spesso, in quello stato di equilibrio estatico, di piacere senza pensiero, che si raggiunge meditando. Per meditare bene, i lama hanno un livello di consapevolezza sintonizzata sul momento corrente. Con la musica è un po’ la stessa cosa, suonando entri in un flusso di idee che si interrompe col pensiero. Il discorso non è semplice: dal mio punto di vista siamo continuamente bombardati da influssi esterni ed il nostro cervello è sempre sotto scacco. Un impulso inizia a far vorticare la girandola dei pensieri, tutto sedimenta e in un attimo si blocca completamente l’impulso creativo. Invece per me la creatività è proprio questo, una spinta dall’interno verso l’esterno, senza l’ostacolo del pensiero. Insomma, è come se ti dicessi “non pensare ad un elefante rosa”. È la prima cosa a cui pensi. E questi pensieri si sedimentano, diventano spazzatura e in un attimo ti ritrovi con aspettative, delusioni e frustrazioni.

    Suonare con qualcuno con cui hai affinità è liberatorio, invece. Mi sembra di capire che con i Mamasuya stia succedendo proprio questo…
    Esatto. Quando si suona per amore della musica e non per lavoro, esiste un aspetto creativo di cui sei padrone e ti senti completamente libero. Se poi hai a che fare con una band con cui hai sintonia, ti trovi a cospetto di qualcosa di magico. Il nostro ultimo album, Mexican Standoff, che uscirà a gennaio, incarna bene tutti questi concetti. Davvero, non voglio esagerare, ma è fantastico.

    Partiamo dall’inizio: in origine, erano i Mamasuya.
    La band nasce nel 2009 ed è formato da me, Stefano Resca alla batteria e Nicola Bruno al basso. Abbiamo trovato il nome in cinque minuti, cosa rara per un gruppo, e già quello era un segnale di grande sintonia. 

    Come è andata?
    Stefano ha vissuto per lungo tempo in Nigeria, dove la carne si cucina con un mix di spezie che si chiama suya. Dopo la prima prova ci ha invitato a cena per farcela assaggiare e così abbiamo provato un sapore completamente nuovo, è stato come vedere un colore che non avevamo mai visto prima. “Suya”, abbiamo deciso, doveva esserci. Noi poi abbiamo aggiunto il Mama, il contatto con la terra.

    L’obiettivo era suonare la musica che vi piaceva. Così dopo mesi di prove, è arrivato il vostro primo album
    Il primo disco è uscito nel 2011 e, se devo essere onesto, mi piace ancora molto. È un primo lavoro grezzo, ma ha parecchi spunti di riflessione. Abbiamo venduto tutte le cinquecento copie stampate, lo abbiamo portato in giro parecchio. Tra il primo e il secondo album ho lavorato con Grignani, conoscendo anche Andrea Tripodi che si è interessato ed è entrato nel progetto Mamasuya come fonico e produttore. Dopo aver ascoltato Brain Rain, una delle nostre tracce, si è buttato, entusiasta, nel progetto. E questo non ha fatto altro che darci più fiducia e confermare le sensazioni che già avevamo.

    Il vostro secondo lavoro arriverà con l’anno nuovo. Ce ne parli?
    Rispetto al primo disco siamo stati più istintivi, abbiamo suonato senza il metronomo in cuffia, senza la precognizione di aggiustare a posteriori il nostro lavoro. E si tratta davvero di uno stallo alla messicana, riportato però nella dimensione urbana. Insomma, è come stare in ascensore con degli sconosciuti, si genera quell’empatia forzata che porta, come dice il nome, ad uno stallo. Il disco è interamente strumentale e ha collaborato con noi Johannes Faber, grandisismo musicista e artista, che a sessantadue anni ha lo stesso entusiasmo che aveva all’inizio della carriera. In Mexican Standoff c’è uno stile nuovo, che mescola il rock al funk, passando per le colonne sonore. La cosa davvero bella è stata l’armonia, però. Faber l’ha riassunta magnificamente. 

    In che senso?
    Ha detto una frase, perfetta, che ha fotografato il senso di quello che stavamo realizzando. “La cosa bella – ha detto – è che tutti e cinque abbiamo lasciato l’ego fuori dalla stanza”. Ecco, fare musica è questo: lasciar l’ego fuori dalla stanza. Infatti per registrare l’album ci abbiamo messo più o meno un mese. Quasi tutto dal vivo, quasi tutti primi take. Certo, accade quando si suona con persone con cui hai affinità. C’è stato un altro episodio che mi ha fatto capire quanto fossimo in sintonia…

    Ce lo racconti?
    Certo. Ero in macchina con Nicola e, ad un tratto, mi è venuto in mente che mi sarebbe piaciuto chiamare il nostro nuovo disco, che doveva ancora nascere, “Mexican Standoff”. Gli ho parlato della cosa e lui mi ha rivelato di aver composto, qualche giorno prima “El Pueblo”, un pezzo chiaramente “messicano”. Le idee, insomma, sono lì. Lasciando l’ego fuori dalla porta ci si arriva. E infatti in qualche settimana il disco era pronto, inciso anche in tonalità anomale: quando ci veniva un’idea la registravamo con il telefonino e in quella tonalità componevamo. Di suoni, poi, se ne sentono molti. Oltre agli strumenti tradizionali e alla magnifica tromba di Faber, ci sono momenti “urbani”, dalla falce che viene affilata al rumore che ha ricreato proprio lui, Faber. Ce lo aspettavamo un musicista serio e serioso, tutto d’un pezzo. Il rumore del rombo che si avverte nel disco è lui che con una mazzetta percuote una bombola del gas, vuota: decisamente poco tradizionale, ma bellissimo. Insomma, ego fuori dalla porta e amore per la musica: suonare, per me, è questa cosa qui.

    Potete trovare i Mamasuya in concerto il prossimo 4 settembre, alla Repubblica Indipendente di Lu.

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