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    Maria Grazia Caldirola - redazione@alessandrianews.it  
    24 Novembre 2015
    ore
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    I bambini e la guerra

    In questi giorni, due foto sono diventate rappresentazione emblematica delle atrocità della guerra: la bambina che copre gli occhi alla sua bambola perché non veda le cose terribili che stanno accadendo, e la piccola che alza le mani in segno di resa davanti alla macchina fotografica, forse scambiata per un’arma

    In questi giorni, due foto sono diventate rappresentazione emblematica delle atrocità della guerra: la bambina che copre gli occhi alla sua bambola perché non veda le cose terribili che stanno accadendo, e la piccola che alza le mani in segno di resa davanti alla macchina fotografica, forse scambiata per un?arma

    OPINIONI – Per la passata generazione la foto della bambina vietnamita nuda e bruciata dal napalm che camminava piangendo, sola in mezzo a una folla di persone in fuga, è stata simbolo e icona di una guerra sbagliata. Allo stesso modo, qualche tempo fa, la fotografia di Alan Kurdi, un bambino siriano di tre anni, a faccia in giù e senza vita nella sabbia di una spiaggia turca, ha generato rabbia e dolore in tutto il mondo. E ha spinto a chiedersi cosa spinga una famiglia come quella di Alan a lasciare la Siria e imbarcarsi in un viaggio che si è concluso con la morte sua e dei suoi congiunti. La risposta è a sua volta dolorosa: rimanendo in Siria Alan avrebbe rischiato di diventare uno delle centinaia di altri bambini di tre anni uccisi nel conflitto.

    In questi giorni, altre due foto sono diventate rappresentazione emblematica delle atrocità della guerra: la bambina che copre gli occhi alla sua bambola perché non veda le cose terribili che stanno accadendo, e la piccola che alza le mani in segno di resa davanti alla macchina fotografica, forse scambiata per un’arma. Due bambine che si assomigliano, più o meno della stessa età di Alan, che certamente non si conoscono, che abitano in due paesi però non troppo lontani, accomunate dalla stessa paura, dalla stessa sofferenza. La prima è una bambina turca, di Bursa, città situata a sud del mare di Marmara, dove da anni si scontrano l’esercito turco e i militanti curdi del Pkk. La seconda è una bambina siriana, che terrorizzata dalla guerra e dalla violenza alza i pugnetti uniti sulla testa, stringe le labbra in un accenno di pianto senza lacrime, per farsi catturare dal nemico, come se aspettasse quel momento da quando è nata.

    Un’organizzazione che registra le morti nella guerra, l’Archivio Siriano dei Martiri della Rivoluzione, ha dati dettagliati sulla morte di almeno 232 bambini di tre anni. Il numero reale potrebbe essere molto più alto: l’organizzazione, gestita da oppositori del regime siriano, spiega che in molti casi l’età dei bambini uccisi non è nota e non è quindi registrata. In altri casi non è stata registrata neanche la stessa morte. Più si leggono i dati in dettaglio, maggiore è l’orrore. Di questi 232 bambini, quasi metà sono stati uccisi da colpi di artiglieria. Gran parte degli altri da bombardamenti aerei o armi da fuoco, con una quota minore di morti per altre cause: compreso un bambino sgozzato.

    Nei paesi confinanti con la Siria, soprattutto in Libano, ci sono centinaia di migliaia di bambini siriani. Li vedi di giorno e di notte che si aggirano sulle strade e bussano ai finestrini delle auto, chiedono ai conducenti di comprare un fiore o un pacchetto di biscotti. Sono lasciati in balia di tutto. Eppure, nella scala della disgrazia, sono più fortunati dei bambini che vivono all’interno della Siria e che convivono con i bombardamenti, con la morte.

    “Ho ancora impressi gli occhi di Salah, un bambino di 13 anni che ho incontrato di notte davanti al museo nazionale di Beirut mentre tornavo a casa – racconta Shady Hamadi, scrittore – Appena gli passo davanti si alza dal marciapiede dov’era seduto e mi ferma. ‘Vuoi una rosa?’ mi domanda. ‘Ma non dovresti essere a cassa è tardi’. ‘Papà non vuole’ risponde serio, con tono fermo. Mi racconta di venire da Aleppo. Suo fratello, di 8-9 anni, è con lui, seduto su un marciapiede che gioca con dei sassolini. Non posso che dirgli di stare attento e di curare il fratello. Quando gli do qualche soldo lui mi porge la rosa. Gli dico che me la darà la prossima volta. Insiste a darmela ora: non vuole la carità, ha la sua dignità. Lo convinco che la mia non è carità, che passerò la prossima volta a prenderla e che gli ho solo pagato in anticipo. Accetta”.

    Ogni notte Salah è li, insieme a suo fratello. Ogni giorno e ogni notte le strade di Beirut sono piene di questi bambini che a volte hanno i genitori e a volte sono orfani. Certo in Siria la loro vita sarebbe peggiore, e forse non riuscirebbero neanche a sopravvivere. 

    Save the Children ha lanciato una grande mobilitazione in aiuto dei bambini della Siria, affinchè si ponga fine alle uccisioni e alle violenze e sia consentito di portare loro soccorso e protezione. Ha diffuso un video che mostra la vita normale e felice di una bambina, quindi il suo lento trasformarsi in un incubo, con l’arrivo improvviso e devastante, nella quotidianità della piccola, della guerra. Una devastazione che “solo perché non accade qui, non vuole dire che non stia accadendo”. La guerra è un’eventualità da cui nessuno di noi è escluso e la cui violenza e distruttività richiede che tutti si attivino per fermarla.

    Per fortuna non sempre le storie hanno un finale triste. Felice, per merito dei dottori e degli infermieri di Aleppo, è il finale della storia di una neonata siriana, la cui madre è stata coinvolta in un attacco missilistico. La piccola era stata raggiunta da una scheggia di proiettile alla fronte quando era ancora in grembo alla sua mamma.

    I medici l’hanno fatta nascere con un parto cesareo d’urgenza, rianimandola per farla piangere e respirare, quindi con un intervento chirurgico le hanno asportato la scheggia dalla fronte. Mamma e bimba ora stanno bene. I medici, felici ed orgogliosi per l’esito dell’operazione hanno pubblicato sul Web una foto con la neonata sul tavolo operatorio, appena concluso l’intervento. Sorrisi e pollici alzati. La piccola è stata chiamata dai medici Amal, che he in arabo significa “speranza”.

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