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    Daria Ubaldeschi - novionline@novionline.net  
    7 Novembre 2016
    ore
    00:00 Logo Newsguard

    Il potere logora chi non ce l’ha

    Avere potere significa possedere le capacità e le possibilità di esercitare la propria volontà e di assicurarsi la condiscendenza degli altri. La sua natura è reciproca, collettiva, poiché è la società che lo legittima: le nostre relazioni sociali sono relazioni di potere, quindi di dipendenza

    Avere potere significa possedere le capacità e le possibilità di esercitare la propria volontà e di assicurarsi la condiscendenza degli altri. La sua natura è reciproca, collettiva, poiché è la società che lo legittima: le nostre relazioni sociali sono relazioni di potere, quindi di dipendenza

     
    La citazione che dà il titolo al pezzo di questo mese è attribuita originariamente a Charles de Talleyrand, politico francese dei primi dell’800, ma anche, restando a casa nostra, a Giulio Andreotti.

    Avere potere significa possedere le capacità e le possibilità di esercitare la propria volontà e di assicurarsi la condiscendenza degli altri, quando non a ricercare la loro arrendevolezza. La sua natura è reciproca, collettiva, infatti il potere agisce nell’ambito della relazionalità poiché è la società che lo legittima: le nostre relazioni sociali sono relazioni di potere, quindi di dipendenza, che ne è il naturale corollario.

    Se proviamo a leggere, osservare, i rapporti umani così come ci vengono proposti dalla cronaca piuttosto che dal gossip, vedremo concretizzarsi ed agire questa dinamica che potremmo chiamare di dominazione-dipendenza. Del resto, tutti subiamo quotidianamente pressioni non intenzionali, ma non per questo meno forti, determinate all’interno delle normali gerarchie sociali, familiari e spesso ciò può provocare voglia di recupero di potere, soprattutto in età adolescenziale e giovanile, attraverso canali negativi quali aggressività, vandalismo, disimpegno. Tutte condotte che evidenziano come l’imparzialità relazionale non sia di questo mondo e l’essere umano sembra sempre più avviarsi verso una forma di cattiveria quasi patologica ma che ha certamente una funzione difensiva del proprio essere, delle proprie incertezze.

    Essere cattivi è una patologia? In un certo senso sì ed è legata alla mancanza di empatia, ossia alla capacità di mettersi nei panni dell’altro e capirne i vissuti, i sentimenti, qualcosa che non è solo una comprensione cognitiva, ma molto di più, è un’immedesimazione, priva di qualsivoglia giudizio, nello stato esistenziale dell’altro. L’empatia, però, è una caratteristica umana molto fragile e vulnerabile che subisce importanti variazioni in conseguenza dell’agire di condizioni esterne, di stressor ambientali, relazionali e sociopolitici. La diminuzione dell’empatia, la sua assenza, porta all’indifferenza verso gli altri, che non sono più percepiti come persone con una loro storia, ma diventano contenitori inconsapevoli dei nostri istinti malvagi, che abbiamo per natura, ma che proiettiamo sugli altri per sentirli meno nostri, per sostenere l’immagine di noi stessi come persone “buone”, libere dal peccato.

    Detto in altre parole, se rendo l’altro cattivo, io posso più facilmente sentirmi buono, ancor più se mi incarico di punirlo assicurandomi così anche un riconoscimento ufficiale, almeno da parte di chi mi attribuisce questo ruolo di “giustiziere”. Tutto ciò a prescindere dall’effettiva colpa dell’altro, a volte più ipotizzata e presupposta che non reale, in quanto necessaria al mantenimento di un equilibrio esistenziale: per pura curiosità, sapete che il termine giustiziere è sinonimo di carnefice?

    “Essere potenti è come essere una signora, se hai bisogno di ricordarlo agli altri vuol dire che non lo sei” (Margaret Thatcher)

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