Bobby Posner, l’icona del rock ‘n roll anni Sessanta a Novi per amore
Bobby aveva tredici anni nel 1958 quando al suo vicino di casa i genitori donarono una chitarra. Lui, geloso, chiese a suo papà lo stesso regalo e così per accontentarlo gli venne presa una chitarra di seconda mano. "Dopo un paio di settimane il mio amico si era già stufato di suonarla... io invece continuai..."
Bobby aveva tredici anni nel 1958 quando al suo vicino di casa i genitori donarono una chitarra. Lui, geloso, chiese a suo papà lo stesso regalo e così per accontentarlo gli venne presa una chitarra di seconda mano. "Dopo un paio di settimane il mio amico si era già stufato di suonarla... io invece continuai..."
«Dopo un paio di settimane il mio amico si era già stufato di suonarla… io, invece, continuai ed è così che iniziò la mia passione per il mondo della musica. A scuola, a quei tempi, c’era un gruppo rock and roll che cercava un bassista e così non mi sono lasciato scappare l’occasione. All’epoca volevano suonare tutti la chitarra perché andava di moda ma io ho iniziato a fare pratica col basso. Suonammo a feste, cerimonie private ed eventi locali.
Nel 1961, però, il complesso si sciolse e io rimasi senza nessun con cui suonare. A quei tempi facevo l’elettricista ma mio padre, stufo di vedermi fermo musicalmente parlando, mise un’inserzione sul giornale locale: AAA bassista cerca band». Passano pochi giorni ed il telefono in casa Posner squilla… è Shel Shapiro che cerca il componente mancante per mettere su il gruppo Shel Carson Combo. Il gruppo era formato da Shapiro alla voce e alla chitarra, Bobby Posner al basso, Mike Shepstone alla batteria e Vic Briggs alla chitarra solista.
Il gruppo inizia a fare numerose serate e a girare per tutta l’Inghilterra, il Galles e la Scozia. I quattro suonano nei pub che hanno fatto la storia del rock and roll come il Roaring Twenties di Carnaby Street a Londra, punto di incontro di numerosi musicisti diventati poi famosi in tutti il mondo come Eric Clapton e Mike Jagger.
«Nel ’62, poi, ci recammo in Germania per un tour. L’esperienza ad Amburgo fu preziosa perché ci diede modo di suonare tanto e di aumentare la nostra complicità sul palco. Eravamo due band e ci alternavamo dalle quattro di pomeriggio alle quattro di mattina. Finito il tour, nel 1963 arrivò un telegramma dal nostro agente di Londra dove ci chiese se fossimo disponibili ad accompagnare il cantante anglosassone Colin Hicks nella sua tournée in Italia. Accettammo, molto entusiasti, e dopo un lungo viaggio da Londra arrivammo a Milano, prima tappa del tour. Per l’ingaggio cambiammo nome in Cabin Boys e il nostro compito era quello di suonare prima dello spettacolo di Colin. Dopo Milano fu la volta di Genova e poi Torino.
In quel contesto Briggs, che non voleva lasciare l’Inghilterra, lasciò la band e vene sostituito da Johnny Charlton».
Durante il concerto a Torino, però, avviene qualcosa che cambia la carriera ai quattro ragazzi londinesi. Colin Hicks, prima del concerto, perde la voce, lo spettacolo non viene annullato e viene chiesto ai Cabin Boys di esibirsi al posto suo. I quattro si presentano con il loro nome originario e mettono in scena il loro repertorio, costituito da cover di brani blues e rock and roll, riscuotendo un notevole successo.
Carichi dal successo sabaudo si spostano a Roma senza Colin dove ottengono anche qui un grande riscontro dal parte del pubblico.
L’Italia, dunque, risponde bene alla vostra musica.
È stato in quel momento che avete deciso di rimanere? «Sì, decidemmo di sfruttare l’onda di successo che avevamo avuto con il tour di Colin perché in Italia mancavano band che facessero rock and roll e beat e noi abbiamo colmato questo vuoto anche se poi negli anni successivi, poi, ne sono nate tante. Non è stato, però, tutto rose e fiori… dopo due settimane dalla fine del tour non avevamo più soldi nemmeno per pagare la pensione dove alloggiavamo, una stanza piccola dove dormivamo in quattro – sorride Bobby nel ricordare – Una sera, però, quando stavamo per rinunciare e cedere arrivò una notizia.
Teddy Reno, dopo averci sentito suonare, venne a conoscerci e ci chiese di accompagnare Rita – Pavone ndr- nel suo prossimo tour. Senza nemmeno pensare rispondemmo a gran voce di sì… inoltre Teddy ci pagò anche la pensione, non avrebbe potuto andare meglio!»
«Iniziammo così a suonare con Rita, noi facevamo quello che si chiamava avanspettacolo ovvero suonavamo prima che lei uscisse a cantare. Finita la tournée nel 1964 Teddy Reno ci fece fare un disco, Anima Pura. Prima che il 45 giri uscisse, però, la nostra casa discografica Rca ci fece cambiare nome perché Shell Carson Combo non funzionava per il pubblico italiano».
È in quel momento che sono nati i The Rokes? Da dove è venuta l’idea di questo nome? Bobby sorride: «Quando stavamo a Roma passavamo spesso da una piccola piazza dove c’era una fontana. Al centro c’era una grande getto d’acqua e a lato tanti getti più piccoli. Una sera, di ritorno da un evento, Jonny per sbaglio disse, riferendosi al getto, “Straght as a rocks” al posto che “Straight as a rakes” – dritti come rastrelli ndr- Iniziammo a prenderlo in giro per l’errore lessicale ma quando ci domandarono come avevamo in mente chiamarci di comune accordo, ricordandoci di questo decidemmo per The rokes».
Da qui i Rokes iniziano a suonare in molte città italiane e vengono corteggiati dall’avvocato Crocetta per l’apertura del Piper Club di Roma. Infine, dunque, vengono ingaggiati insieme all’Equipe 84 per suonare nel nuovo club, inaugurato il 17 febbraio del 1965. In breve tempo il Piper Club diviene icona di un’intera generazione e della musica beat. Nel 1966 partecipano, poi, a Cantagiro con una canzone che riscuote tantissimo successo fino a vedere più di mezzo milione di copie “Che colpa abbiamo noi”.
Oltre che a Cantagiro partecipano anche al Festival di Ariccia e al Festival di Sanremo per diversi anni.
Nel 1967 partecipano al Festival di Sanremo con “Bisogna saper perdere” che presentarono con Lucio Dalla, ottenendo di nuovo un notevole successo di vendite.
Nel 1969 tornano per la terza volta a Sanremo e presentano al pubblico “Ma che freddo fa” insieme a Nada. In questa occasione è la cantante livornese a riscuotere maggior successo, come, d’altronde, era l’obiettivo di questo “duo” studiato dalla casa discografica Rca.
Nel 1970 si sciolgono e fanno l’ultimo disco Ombre Blu, che però non ha soddisfatto Bobby: «Era poco rock ma Rca aveva deciso di intraprendere un’altra direzione… io, personalmente, avrei preferito un’impronta differente».
«A questo punto Mike tornò in Inghilterra, Shell si diede alla produzione musicale, Johnny invece cominciò a lavorare in una galleria d’arte dando una svolta alla sua carriera da musicista, mentre io decisi di rimanere in Italia e creai il complesso Voo Doo, un trio dove suonavamo cover di grandi del rock come Jimi Hendrix»
Dopo mesi di tournée Posner torna in Inghilterra per la nascita di sua figlia e decide di rimanere nel suo paese d’origine. Decide di prendere in gestione un club a Londra e, negli anni, sceglie di trasferirsi al sud del Paese, al mare, prendendo un altro club.
A questo punto del racconto una domanda sorge spontanea: cosa ti ha portato a Novi?
«Nel 2011 il fan club dei The Rokes organizzò un raduno… lo realizzammo con tanto entusiasmo e fu proprio in quell’occasione che incontrai la novese Paola. Fu stato un colpo di fulmine, mi innamorati e la seguii fino a giungere a Novi nel 2013. Adesso, a breve, inoltre, diventerà mia moglie».
Certo il salto da una grande metropoli come Londra a una piccola città di provincia come Novi Ligure… che impressione hai avuto? «Assolutamente positiva. È una città a misura d’uomo, ho conosciuto molti musicisti con cui suono e faccio eventi, si mangia bene e, in fondo, il mare non è troppo distante!»