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    Disobedience'
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    Barbara Rossi - redazione@alessandrianews.it  
    27 Ottobre 2018
    ore
    00:00 Logo Newsguard

    Disobedience

    il regista Sebastián Lelio, premio Oscar nel 2018, prosegue il suo lavoro di costruzione e analisi a tutto tondo di personaggi femminili variegati e complessi, sensibili e incantevoli, tutti accomunati dalla “disobbedienza”, la più o meno esplicitata ribellione a convenzioni, riti, miti, presupposti del vivere sociale avvertiti come ingiusti, retrogradi e oppressivi

    il regista Sebastián Lelio, premio Oscar nel 2018, prosegue il suo lavoro di costruzione e analisi a tutto tondo di personaggi femminili variegati e complessi, sensibili e incantevoli, tutti accomunati dalla ?disobbedienza?, la più o meno esplicitata ribellione a convenzioni, riti, miti, presupposti del vivere sociale avvertiti come ingiusti, retrogradi e oppressivi

    CINEMA – “Siamo così sospesi tra la limpidezza degli angeli e la bramosia delle bestie. Hashem ci ha dato la scelta, che è sia un privilegio che un fardello. Dobbiamo allora scegliere la vita intricata che viviamo”. È un passaggio importante, quello conclusivo dell’orazione che Rav Krushka, rabbino capo della piccola comunità londinese di ebrei ortodossi, pronuncia di fronte ai fedeli, seguito da molto vicino sia dal giovane Dovid, che aspira a rivestire il suo ruolo, sia dalla macchina da presa. Non solo per la serietà e profondità del suo assunto – l’annoso tema del contrasto tra dovere e libero arbitrio, tra istinto e puro raziocinio – ma anche per il suo statuto di parola finale e definitiva, gettata su di una vita che sta per chiudersi.

    È così, ignara di questa parola eppure così fortemente consapevole dei suoi effetti e conseguenze, che Ronit (una Rachel Weisz, anche produttrice del film, vibrante e totalmente immersa nelle diverse e complementari sfaccettature del suo personaggio: sicura e indipendente nella sua vita professionale a New York, impacciata e nevrotica durante il soggiorno londinese, appassionata con Esti, il suo antico amore) fa ritorno a casa, dopo anni di estraneità e lontananza. Ronit torna per assistere ai funerali del padre, il rabbino capo, in silenzio e a capo chino, reietta e guardata con diffidenza dalla comunità in cui è cresciuta e che ha tradito, abbandonato, per vivere una vita che corrispondesse ai suoi bisogni e aspirazioni.

    È qui, in questo deflagrante incontro, che il regista Sebastián Lelio, premio Oscar nel 2018 per Una donna fantastica, prosegue il suo lavoro di costruzione e analisi a tutto tondo di personaggi femminili variegati e complessi, sensibili e incantevoli, tutti accomunati dalla “disobbedienza”, la più o meno esplicitata ribellione a convenzioni, riti, miti, presupposti del vivere sociale avvertiti come ingiusti, retrogradi e oppressivi.

    Ne Una donna fantastica è Marina ad accollarsi il peso della lotta non solo per il riconoscimento della propria identità, anche sessuale (l’unica avallata da lei stessa, non quella certificata sul registro dell’anagrafe), ma anche per fare in modo che questo diritto a essere, all’esterno, come ci si sente dentro non venga restituito alla società sotto forma di minaccia.

    In Disobedience – trasposizione dell’omonimo romanzo d’esordio della scrittrice ebrea ortodossa Naomi Alderman, con il quale ha vinto l’Orange Prize for New Writers 2006 e il Sunday Times Young Writer of the Year Award 2007 – le donne sono due, Ronit ed Esti (Rachel McAdams, attrice canadese con alle spalle una carriera internazionale iniziata in Italia nel 2002, con il film My name is Tanino di Paolo Virzì: qui misurata, dolente ed empatica nel composto ritegno di chi indossa una quotidiana maschera per celare la propria vera natura e sopravvivere). Insieme formano un duetto dapprima timoroso, poi complice e solidale nella scelta di non accontentarsi della semplice sopravvivenza, ma di provare a lasciar fluire sentimenti, emozioni e una ritrovata passione, declinata tra corpo e anima. Lelio indugia con la macchina da presa su di loro: i dettagli di volti, mani, sguardi intrecciati: l’incontenibile frenesia amorosa, indagata da vicino ma senza morbosità, a cui fa da contraltare il tiepido rituale dell’accoppiamento tra Esti e Dovid, il futuro rabbino, tramite il quale il duetto si trasforma, lentamente, in triangolo amicale.

    Figure di un desiderio che ha avuto origine in un tempo lontano, Ronit, Esti e Dovid vengono riavvicinati – dal caso, dal destino? – e spinti a confrontarsi con temi quali la colpa, la vendetta, il perdono, l’obbedienza alle regole; la libertà, in ultima analisi, e – sopra tutti – la scelta. Il peso del melodramma è incombente, nel primo lungometraggio in lingua inglese di Lelio, che pare rinchiudere anche visivamente i propri personaggi in una Londra atemporale dai colori smorzati, ben lontana dalle atmosfere calde e vivaci di Una donna fantastica.

    Le rigide geometrie in cui sono organizzati gli spazi, però, il mondo ortogonale in cui Esti e Ronit si muovono, vagando alla ricerca di un senso, di una risposta, o dal quale tentano di evadere, è lo stesso del precedente film, con qualche analogia rispetto le claustrofobie narrative e d’ambiente di A Serious Man dei Coen (2009) ma con una divergenza di base: l’impossibilità dell’esercizio del libero arbitrio da parte di Larry Gopnik contro la libertà di scelta che i protagonisti di Disobedience ricevono in dono in epilogo. Entro un plot perfettamente circolare, alla fine risuonano, uscendo dal silenzio di una comunità religiosa assoggettata alle proprie prescrizioni e divieti, le parole di liberazione di Dovid Kuperman: “Non c’è nulla di più tenero e veritiero del sentimento di essere liberi. Liberi di scegliere”. È la medesima chiusa di Rav Krushka, ma con una sfumatura infinitamente più dolce. Finalmente liberi di scegliere, in una riappacificazione che non è più soltanto consolatoria, Esti, Ronit e Dovid si incamminano ciascuno verso un futuro che gli rassomigli. Può apparire prevedibile e poco coraggioso nel suo negare le premesse il finale che sigilla l’evoluzione dell’incontro tra Ronit ed Esti, vero centro nevralgico della storia: ma ciò che conta è la sospensione del giudizio, di fronte a un’umanità che ha diritto di aspirare – suggerisce Lelio – se non alla piena felicità, almeno alla libertà di pensiero e azione.Rimane, nel mondo a parte raccontato dal regista cileno, il suono di ciò che si è vissuto: il rumore del tempo, delle memorie cristallizzate in una canzone dei Cure e un ultimo, bellissimo e struggente scatto della macchina fotografica di Ronit, nel luogo in cui si rende omaggio a passato e affetti. Un posto in cui è possibile – prendendo a prestito il titolo del penultimo romanzo dello scrittore ungherese Ferenc Körmendi – incontrarsi e dirsi addio

    Disobedience
    (Sebastián Lelio, Usa, Gran Bretagna, Irlanda, 2017, 114’)

    Sceneggiatura: Sebastián Lelio, Rebecca Lenkiewicz, dal romanzo di Naomi Alderman
    Fotografia: Danny Cohen
    Montaggio: Nathan Nugent
    Scenografia: Sara Finlay
    Musica: Matthew Herbert

    Cast: Cara Horgan, Anton Lesser, Allan Corduner, Alessandro Nivola, Nicholas Woodeson, Rachel McAdams, Rachel Weisz

    Produzione:  Braven Films, Element Pictures, Film 4

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