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Andrea Scotto  
10 Dicembre 2018
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20 aprile 1943: la grande fuga dal Forte di Gavi

Dal gennaio 1942 al settembre 1943 il Forte di Gavi fu utilizzato dal Regio Esercito Italiano come "Campo N° 5 per ufficiali pericolosi". Grazie all’uscita del libro "Un uomo in fuga" di David Guss, possiamo fare qualche domanda agli autori di un tentativo di fuga (quasi) riuscito

Dal gennaio 1942 al settembre 1943 il Forte di Gavi fu utilizzato dal Regio Esercito Italiano come "Campo N° 5 per ufficiali pericolosi". Grazie all?uscita del libro "Un uomo in fuga" di David Guss, possiamo fare qualche domanda agli autori di un tentativo di fuga (quasi) riuscito

INTERVISTANDO LA STORIA – Dal gennaio 1942 al settembre 1943 il Forte di Gavi fu utilizzato dal Regio Esercito Italiano come “Campo N° 5 per ufficiali pericolosi”, riservato quindi alla detenzione di quei prigionieri che, dopo essere stati catturati in Nordafrica dalle truppe italo-tedesche al comando di Rommel, erano già stati autori di tentativi di evasione da altri campi. Grazie all’uscita di “Un uomo in fuga” di David Guss (pubblicato di recente in traduzione italiana dalla Newton Compton Editori), possiamo fare qualche domanda agli autori di un tentativo di fuga (quasi) riuscito.


— Come mai soldati inglesi, scozzesi, canadesi, australiani, sudafricani qui, a Gavi?

David Stirling, maggiore: «Al campo 5-3100 di Gavi siamo stati rinchiusi in quanto pericolosi per le forze dell’Asse: ad esempio, lo Special Air Service da me fondato e organizzato distrusse, con azioni di commando a terra, decine e decine di aerei italiani e tedeschi. Divenni “il maggiore Fantasma”, sulla cui testa i nazisti misero una sostanziosa taglia».

— Veramente pericolosi!
Alastair Cram, tenente: «E non solo per quello. Io arrivai a Gavi dopo aver tentato già quattro volte di evadere, due in Nordafrica e due in Italia. A differenza di altri campi, nei quali chi tentava la fuga era visto come un problema, perché un tentativo, riuscito o meno, comportava per ritorsione restrizioni per tutti, a Gavi mi trovavo in un’autentica “università dell’evasione” nella quale eravamo disposti a tutto pur di fuggire».

— Qualche tentativo lo avete fatto?
George Clifton, brigadiere generale: «Certamente! Io stesso tentai, utilizzando una persiana per accedere ad un tetto: ma mi beccarono subito. Altri furono trovati nascosti dentro i sacchi usati per le pietre raccolte sulle rive del Lemme (utilizzate poi per lavori edili); due addirittura confezionarono finte divise italiane con la carta azzurra dei pacchi, e addirittura riuscirono ad oltrepassare il primo posto di guardia prima di essere beccati. E poi ci fu la grande fuga dell’aprile 1943».

— Come nei film?
Michael Pope, guardiamarina: «Sì, il piano che avevamo elaborato avrebbe davvero fatto la felicità di uno sceneggiatore di Hollywood. Da una delle nostre celle scavammo una galleria che giunse all’interno della cisterna dell’acqua piovana; dopo alcuni giorni di intensa pioggia, l’acqua raggiunse il livello massimo, in corrispondenza di uno sbocco per far uscire l’acqua all’esterno: la nostra via verso la libertà. Io rimasi nel Forte, incaricato di nascondere l’ingresso della galleria: sarei stato il primo della fila nella fuga successiva».

— Come andò?
Jack Pringle, maggiore: «Non bene. Chi fu catturato nelle immediate vicinanze del Forte, chi poco distante, chi, come me, a pochissima distanza dal confine con la Svizzera: un vero peccato. Il “Campo 5”, a conti fatti, aveva conservato la propria inviolabilità».