Rinascite di primavera: “Viaggio a Tokio” e “Ciliegi in fiore”
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CINEMA – Due film delicati, gentili, sulla persistenza dei sentimenti, persino al di là della vita: un viaggio intimista che collega entrambe le pellicole in bilico tra allegria e malinconia, dalla Germania al Giappone, dove fioriscono i ciliegi: stiamo parlando di “Viaggio a Tokio” di Jasujiro Ozu (1953) e di “Ciliegi in fiore” di Doris Dorrie (2008).
“Viaggio a Tokyo” (“Tokyo Monogatari”, letteralmente “Una storia di Tokyo”) è considerato, non a torto, il capolavoro del regista giapponese Jasujiro Ozu, nonché uno dei vertici del cinema mondiale.
Tra i film più famosi del Maestro, altissima espressione di quel realismo che inizia a pervadere i suoi lavori a partire dagli anni Trenta (Ozu inizia la carriera come operatore di macchina, per poi passare alla regia nel 1927: gran parte delle sue prime opere sono andate perdute, così come molte delle successive. Non ha subito lo stesso destino, per fortuna, “Giorni di gioventù” – 1929 – il lungometraggio d’esordio), si rivela ad ogni nuova visione un insuperabile esercizio di stile e abilità narrativa, sospeso fra classicità e innovazione.
Innamorato del cinema occidentale (era un cultore di Ernst Lubitsch) ma, nello stesso tempo, narratore rigoroso e attento delle tradizioni domestiche del proprio Paese, in “Viaggio a Tokyo” Ozu rivolge lo sguardo alle profonde e spesso laceranti trasformazioni del tessuto sociale e familiare che affondano le radici nell’immediato dopoguerra, con l’acceleramento del progresso industriale che cambia il rapporto tra città e campagne, l’urbanizzazione selvaggia, l’allentarsi del rapporto intergenerazionale.
La storia, dolorosa e – pur nell’imperturbabile armonia esteriore delle relazioni tratteggiata dal regista – a suo modo tragica, inizia con la decisione dell’anziana coppia formata da Shūkichi (Ryū Chishū) e Tomi (Higashiyama Chieko) di lasciare temporaneamente la propria dimora in campagna, a Onomichi, per far visita ai due figli – Kōichi (Sō Yamamura) e Shige (Haruko Sugimura) – che vivono e lavorano a Tokyo.
Le aspettative dei due genitori nei loro confronti andranno ben presto deluse, alla luce dell’indifferenza che pare aleggiare sovrana nei comportamenti e nelle scelte di vita, dominate dal materialismo, della giovane generazione.
Quello di Shūkichi e Tomi, più che un viaggio con il soddisfacimento finale di un obiettivo ben preciso, assomiglierà a un vagabondare senza costrutto, da Onomichi a Tokyo e ritorno, passando per Osaka – dove vive un’altra figlia, Keizō (Shiro Osaka) – e le terme di Atami, espressione di un ambiente marino che non ha più nulla da offrire ai loro cuori stanchi.
L’unico supporto emotivo, anch’esso fragile ma sincero, è rappresentato da Noriko (Hara Setsuko), loro nuora e vedova del figlio Shōji, disperso in guerra da otto anni: ma il tempo e lo spazio di un incontro meno peregrino sono circoscritti entro una società nipponica che – proprio come in Occidente – sta smarrendo ogni dimensione umana.
Uscito nelle sale italiane solo a metà degli anni Sessanta – come la maggior parte dei suoi film non andati perduti – “Viaggio a Tokyo” è una riflessione lirica e amarissima sul cambiamento dei costumi, il trascorrere dell’esistenza e l’impossibilità da parte dell’uomo di superare i propri limiti fisici e mentali, ma senza giudizio e colpevolizzazione alcuna da parte di Ozu, che con il suo stile quieto, limpidamente narrativo eppure non soggiacente ai canoni del cinema di registi a lui contemporanei (vedi Mizoughi o Kurosawa) compone un affresco di assoluta modernità.
Immagini in alternanza (in un bianco e nero profondo e ricco di contrasti), long take, suoni e rumori naturali a fare da corollario e sfondo vengono miscelati senza soluzione di continuità, fluendo come la narrazione entro un tutto omogeneo.
Marca distintiva di Ozu, la macchina da presa è posizionata a terra, fissa e al centro della scena: la cosiddetta ‘altezza tatami’, che pare voler andare oltre – dal punto di vista estetico – il semplice rispecchiamento di un’abitudine conviviale giapponese.
«Non è una leggenda», spiega Dario Tomasi, massimo esperto di cinema orientale, autore nel 1996 di “Ozu Jasujiro. Viaggio a Tokyo”. «Ozu è il primo ad abbassare la macchina da presa e ad inventarsi un’inquadratura. Prima e diversamente da Welles e Toland in “Quarto Potere” con le loro angolazioni dal basso, Ozu mantiene l’obiettivo basso, la m.d.p. parallela a terra. Qualcuno riconduce la scelta ad un’esigenza legata al modo di sedersi tra giapponesi, modello tatami, ma il regista la usa anche in luoghi “occidentalizzati” nei suoi film come gli uffici».
Ne deriva – parafrasando Visconti – un “gruppo di famiglia in un interno” autocentrato, come se nulla di realmente importante potesse compiersi o avere respiro al di fuori dello spazio domestico, spesso angusto, al di là dei sorrisi e dei rituali di superficie.
Di “Viaggio a Tokyo”, vertice dell’arte di un regista che ha fatto scuola per molte generazioni a venire – compreso uno tra gli emuli recenti più famosi, Hirokazu Kore-eda – si fissa nella mente dello spettatore una battuta emblematica, pronunciata da Kyoko (Kyōko Kagawa), l’ultimogenita di Tomi e Shūkichi, in un dialogo con Noriko: «La vita è deludente».
Una speculazione molto amara, che Ozu, tuttavia, fa rientrare con naturalezza e senza acredine in quel continuo gioco di specchi, quel contraltare di dolori e gioie che nulla aggiunge e nulla toglie al fluire indifferente della vita.
Doris Dorrie, oltre che regista anche scrittrice di successo e sceneggiatrice, è nota in Italia per il film “Männer” (“Uomini”), che nel 1985 ha totalizzato soltanto in Germania più di 7 milioni di spettatori, rimanendo per lungo tempo in cima alle classifiche in quanto a gradimento di pubblico.
Con “Uomini” Doris Dorrie ha vinto il German Film Prize e il Goldene Leinwand, approdando anche in America per girare “Me and Him”, l’adattamento del romanzo di Alberto Moravia “Io e lui”, che le è valso ancora una volta il Goldene Leinwand.
Con “Ciliegi in fiore” (Kirschblüten – Hanami), presentato al 58esimo Festival di Berlino, la Dorrie concentra l’attenzione sulla vita di un’anziana coppia di coniugi, Trudi (Hannelore Elsner, una delle protagoniste, nel 1973, di “Viaggio a Vienna” di Edgar Reitz) e Rudi (interpretato dal bravissimo Elmar Wepper, già al centro della narrazione di “Tre quarti di luna” di Christian Zübert), che conducono la loro tranquilla esistenza in una piccola cittadina tedesca.
Come spesso accade, i figli, ormai cresciuti, sono lontani, immersi nelle proprie attività ed esistenze. La regista descrive con precisione il lento scorrere del tempo, la metodicità con cui iniziano e si concludono le giornate di Trudi e Rudi: lei cura la piccola casa, ornata di cineserie, lui ogni mattina prende il treno delle 7.28, accompagnato dallo sguardo del medesimo gatto solitario, per andare in città a lavorare in un ufficio del comune che gestisce la spazzatura.
Il teaser, il cosiddetto “gancio” narrativo messo in atto dalla Dorrie consiste in una notizia sconvolgente, che induce Trudi a progettare un viaggio che nasce in Germania (destinazione le dimore dei figli primogeniti) e che avrà modo di concludersi molto più lontano, in Giappone.
Nel mezzo, il senso di solitudine e di smarrimento provato dai due al cospetto di figli oramai estranei e sordi alle loro esigenze, il vagabondaggio attraverso i luoghi (sino al parziale approdo in un albergo sul Mare del Nord), la ricerca di un senso del vivere – soprattutto per quanto riguarda Rudi – dell’amare a dispetto dell’età, delle fragilità, perché il tempo non riesce a scalfire la coriacea scorza dei sentimenti.
C’è, nel film, anche il senso di emozionante, sorprendente e insieme dolorosa scoperta dell’Altro, delle sue passioni, di quei piccoli segreti spesso tenuti nascosti anche allo sguardo di chi amiamo.
Si tratta del viaggio iniziatico (anche se tardivo) di Rudi, sulle tracce – tutte orientali – della moglie, e della danza Butoh dai lentissimi movimenti che lei prediligeva in gioventù. Spesso, il segreto di un’anima si cela nelle piccole cose, nei gesti minimi, quasi invisibili.
Tokyo (il film vuole essere anche un omaggio alla magnifica storia raccontata nel “Viaggio a Tokyo” di Ozu) è una città caotica, affollata eppure densa di abbandoni e solitudine: ha un doppio volto, un cuore misterioso, come quello di Trudi.
Il processo di identificazione con la moglie da parte di Rudi è totale, simbiotico: dall’indossare i suoi abiti, al ricomporli sul letto matrimoniale, al cercare con deliberata insistenza la mano di lei.
Per carpire veramente il segreto di Trudi e, di conseguenza, ritrovarla, Rudi dovrà, però, lasciarsi guidare da una giovanissima danzatrice giapponese di Butok, con la quale andare ad ammirare lo spettacolo del Monte Fuji e quello, altrettanto magico, dell’Hanami, letteralmente ‘guardare i fiori’, contemplare la poetica fioritura dei ciliegi primaverili.
È proprio nel perpetuo succedersi delle stagioni, nella manifestazione ciclica del risveglio della natura dopo il sonno invernale che Rudi, come ciascun essere umano, può giungere a dare un senso anche alla propria parabola di vita, senza timori: il sentimento amoroso, come la rappresentazione cinematografica, sono ottimi viatici per l’eternità.