Le feste patronali di San Massimo e di San Giacomo a Valenza
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – La festa di San Massimo, un evento profondamente radicato nella storia di Valenza, è testimoniata con dovizia di particolari negli antichi Statuti comunali del 1397. Questi documenti, che ne tracciano l’origine agli albori stessi della cristianità valenzana, offrono uno sguardo affascinante su una tradizione che per secoli ha plasmato l’identità della comunità. A San Massimo, parroco della chiesa di Astigliano, si attribuisce il merito di aver salvato la popolazione valenzana dai barbari all’inizio del VI secolo, dando origine al nuovo centro abitato in una posizione più facilmente difendibile, il rione Colombina.
La ricorrenza, delineata con minuzia di dettagli nelle prescrizioni statutarie di circa un migliaio di anni dopo, rappresentava ben più di una semplice celebrazione religiosa: era un’occasione straordinaria di unità e coesione per l’intera popolazione valenzana. Un momento avvertito intensamente in cui le barriere sociali si attenuavano, unendo le diverse arti e professioni, le corporazioni, e i diversi ceti sociali in una grandiosa festa che fondeva sacro e profano in versione dolce stil novo.
Si trattava di un evento dal carattere triplice: profondamente religioso per la venerazione del santo patrono, genuinamente popolare per la partecipazione sentita e diffusa della comunità, e inevitabilmente profano, con elementi di allegria e svago che ne addolcivano la solennità. Quasi un ponte temporale, un delicato momento di transizione fra le festività natalizie appena concluse, con il loro carico di devozione e intimità familiare, e l’ormai imminente Carnevale, con la sua esplosione di colori, travestimenti e licenziosità controllata.
La celebrazione, pertanto, assumeva un ruolo cruciale nel calendario civico e spirituale di Valenza nei secoli XV e XVI, scandendo il ritmo della vita comunitaria intrisa di misticismo cristiano. Gli antichi statuti rivelano inoltre la complessa logistica che sottendeva la preparazione della festività con rigore quasi aristotelico. Almeno otto giorni prima della data designata, l’8 gennaio, i consiglieri comunali, figure chiave dell’amministrazione civica, si riunivano sotto il Palazzo del Comune per organizzare l’evento. Una casta politica che per darsi dignità e identità si attaccava a queste cose, lasciandosi carezzare dalla lusinga del santo.
Ma la festa di San Massimo non era solo un momento di aggregazione sociale e spirituale; doveva essere anche un trionfo artistico, un’esplosione di bellezza visiva che onorasse degnamente il santo patrono. L’attenzione ai dettagli estetici era palpabile, in particolare nella confezione dei ceri votivi (candele che si offrono in voto) che quale dovesse essere lo scopo esoterico resta in parte incomprensibile.
Contrariamente alla pratica moderna di semplici decorazioni dipinte, i famosi ceri di San Massimo erano vere e proprie opere d’arte, realizzate con cera modellata a rilievo e impreziosite da una varietà di colori vibranti. Le candele, un elemento centrale nelle celebrazioni e nelle cerimonie, assumevano forme diverse e affascinanti. La loro decorazione era un tripudio di colori, grazie a fiori meticolosamente creati con cera di diverse tonalità. Questi capolavori di artigianato erano noti come «ceri della comunità», e la loro importanza trascendeva il mero aspetto decorativo, incarnando l’identità e le tradizioni del gruppo.
Ogni anno, i mugnai, figure fondamentali per la sussistenza della comunità, erano investiti della responsabilità di confezionare ulteriori due ceri fioriti, simili a quelli esistenti, perpetuando la tradizione e assicurando la continuità delle celebrazioni. Questi ceri, frutto del loro lavoro e della loro abilità, erano un’offerta preziosa alla comunità. Inoltre, la Comunità stessa, insieme ai mugnai, si faceva carico della realizzazione di sei grossi ceri gialli. Questi, imponenti e radiosi, erano posizionati strategicamente al centro dei ceri fioriti, amplificandone la luminosità e creando un effetto visivo ancora più suggestivo.
Non finiva qui. A spese della comunità, erano commissionati anche quattro grandi ceri, la cui forma era lasciata alla discrezione degli artigiani.
Oltre ciò, per perpetuare la tradizione e onorare la ricorrenza sacra, tutti i coloni residenti nel territorio, i massari responsabili della gestione delle terre, i proprietari terrieri, e tutti i coltivatori, sia coloro che lavoravano direttamente i campi, sia quelli che lo facevano indirettamente tramite mezzadri o braccianti, erano tenuti a contribuire attivamente lisciando il pelo a chi era al comando, mostrando uno spettacolo pietoso di cortigianeria e compiacenza.
Per ognuno dei rioni, o sorti – Astigliano, Monasso e Bedogno – in cui era suddivisa la cittadinanza di Valenza, ogni individuo appartenente a queste categorie doveva provvedere alla realizzazione di due ceri votivi, seguendo le stesse modalità e gli stessi standard qualitativi degli altri partecipanti. Allo stesso modo, gli artigiani, operanti in ogni settore produttivo, dai fabbri ai tessitori, dai falegnami ai vasai, erano obbligati a dimostrare il loro impegno collettivo realizzando due ceri per ogni arte o mestiere che esercitavano. Questa partecipazione era considerata un dovere civico e religioso ineludibile che inibiva qualsiasi critica, un modo per esprimere la propria devozione e rafforzare il legame sociale all’interno della comunità, senza averci creduto fino in fondo.
Per garantire l’approvvigionamento della cera, materiale essenziale per la fabbricazione dei ceri, e di tutti gli altri elementi necessari alla loro confezione, ogni anno, al termine del periodo del raccolto, veniva imposta una tassa in natura. Tutti i proprietari terrieri e i coltivatori erano tenuti a versare due staia di frumento se avevano impiegato il carro per la coltivazione dei loro campi, e uno staio se invece si erano serviti del biroccio, un carro più piccolo trainato da un singolo animale. La stessa aliquota era applicata a coloro che avevano fatto coltivare le proprie terre utilizzando asini come forza lavoro.
Anche gli artigiani dovevano contribuire economicamente, versando ogni anno delle quote precedentemente stabilite e calcolate in base alla natura e all’importanza del loro mestiere. Il pagamento di queste quote era obbligatorio, e chiunque si fosse rifiutato di adempiere a tale obbligo si sarebbe trovato di fronte a severe conseguenze legali. In caso d’inadempienza, si poteva procedere con l’esecuzione forzata, ricorrendo a una procedura d’urgenza per il recupero delle somme dovute.
La complessa cerimonia dei ceri era un affare di grande importanza, un rito annuale che sottolineava la struttura sociale e l’importanza religiosa della società. Tutti i partecipanti, dai coloni umili agli influenti padroni terrieri, dovevano recarsi singolarmente, con passo grave e rispettoso, sotto il portico del palazzo del Rettore. Lì, la luce fioca del mattino si fondeva con le ombre profonde della piazza, creando un’atmosfera solenne e densa di aspettativa. Ciascuno depositava il proprio cero, frutto di lavoro e sacrificio, con cura e precisione, allineandolo ordinatamente in file composte da coppie perfette. Il silenzio era interrotto solo dal lieve fruscio delle vesti e dal crepitio occasionale della cera.
Una volta completata la processione dei ceri, una rigorosa divisione veniva attuata. Metà dei ceri, scelti con attenzione per mantenere un equilibrio tra le offerte di ogni ceto, era destinata alla venerata chiesa di S. Maria Maggiore, il cui campanile si ergeva verso il cielo come un dito puntato verso la divinità. L’altra metà, con pari sacralità, era destinata alla chiesa di San Francesco, con la sua facciata semplice ma austera, testimone di anni di preghiera e penitenza intensa e pura.
La solenne processione, un corteo lento e maestoso si snodava per le vie attirando gli sguardi curiosi e rispettosi dei valenzani tra cui alcuni baldanzosi simulatori poco disposti a confrontarsi con la santità e con l’aldilà.
La processione partiva dal Palazzo comunale, percorreva la via Maestra (corso Garibaldi) fino alla chiesa di San Francesco (piazza Verdi), quindi imboccava la strada che conduceva alla porta di Santa Caterina (via Alfieri), voltava nuovamente a sinistra, passando davanti al monastero dell’Annunziata (via Cavour) e infine, risalendo la strada della porta Po, arrivava in piazza del Duomo. Il rito, frutto della mentalità giudaico-cristiana, si concludeva con il canto dei vespri. I valenzani assistevano assiepati nelle strade come in un esteso teatro.
Il Rettore, figura venerata e guida spirituale della comunità, apriva il cammino, seguito dai Sindaci, garanti dell’ordine e della giustizia, e dagli Anziani, depositari della saggezza e dell’esperienza. I Consiglieri Comunali, figure chiave nell’amministrazione della città, seguivano a ruota, insieme al trombettiere, il cui suono squillante annunciava l’importanza dell’evento, e ai musici, che intonavano inni sacri che risuonavano tra le case. All’interno delle due chiese, luoghi di culto e di aggregazione sociale, i ceri erano conservati in luoghi appositamente designati, nicchie silenziose protette dalla polvere e dall’umidità. La loro disposizione, da seguire zitti e ubbidienti, rifletteva la gerarchia sociale: davanti, i ceri dei coloni, dei massari e dei padroni, simboli della prosperità e della stabilità della terra; seguivano poi quelli degli artigiani, testimoni del valore.
Nel cuore pulsante di Valenza, città intrisa di storia e tradizioni, la devozione religiosa e il senso di comunità si manifestavano attraverso questi rituali elaborati e solenni, profondamente radicati nel tessuto sociale ed economico. Ogni anno, in occasione di festività importanti, la comunità si stringeva attorno alle figure di spicco della città, offrendo doni e tributi simbolici, segno di rispetto, obbedienza e gratitudine. In particolare, l’offerta di ceri e la processione in onore di San Massimo, patrono della città, rappresentavano un momento culminante di questo ciclo rituale, dove la preghiera era comunque la parola più proba.
Tuttavia, per alcune minoranze inevitabilmente maltrattate, individui liberi e forti, pronti a rischiare tutto per le loro idee, era considerata un’opera teatrale con una precisa e collaudata regola: ogni interprete doveva recitare la sua cretinata. Ma a dirlo, tra l’indicibile e il pubblico ludibrio, ci voleva molto coraggio per questi perplessi iconoclasti la cui devozione era poco più che un soprammobile. Qualcosa che aveva a che fare con un agnosticismo irrisorio rozzo.
Inoltre, prima e dopo l’offerta dei ceri, si dovevano condurre per Valenza un bue e un asino ornati con stoffe, drappi, ghirlande e corone di mele e di aglio. Secondo la tradizione un bue e un asino attaccati a un aratro tracciarono le linee della fortificazione iniziale di Valenza.
Il regolamento comunale, emanato a tutela di una tradizione locale di cui, purtroppo, non c’è dato conoscere i dettagli specifici, sanciva con fermezza e pulsioni predatorie la protezione degli animali e dei loro accompagnatori. Chiunque, fosse egli cittadino valenzano o forestiero di passaggio, osasse turbare la quiete di questi esseri viventi esposti con molestie di qualsiasi genere, o addirittura offendere il loro decoro, incorreva in severe sanzioni, stabilite ad arbitrio del Rettore, massima autorità locale in materia. Qualora poi le infrazioni si fossero rivelate di una gravità superiore, come nel caso di tentativi di sottrazione degli ornamenti di cui gli animali erano abbelliti, la pena pecuniaria aumentava sensibilmente, raggiungendo la cifra considerevole di quaranta soldi pavesi.
Affinché tali disposizioni fossero portate a conoscenza di ogni membro della comunità e dei visitatori occasionali, il banditore del Comune era incaricato di compiere un pubblico proclama, diffondendo il contenuto del regolamento in ogni angolo della città. Il ricavato derivante dalle multe comminate ai trasgressori, lungi dall’essere destinato ad altri scopi, era interamente utilizzato per finanziare la confezione dei ceri, presumibilmente impiegati in solenni celebrazioni religiose o festività civili, rafforzando così il legame tra la legge e il sacro.
Ma accanto a San Massimo, patrono storico di Valenza, figura anche San Giacomo, venerato a Valenza in particolar modo da un’epoca successiva. Figlio di Zebedeo e discepolo prediletto di Gesù Cristo, in seguito canonizzato come San Giacomo il Maggiore, il santo detiene un ruolo di primo piano nel panorama religioso spagnolo e galiziano, essendo considerato il loro patrono celeste. Nella Chiesa cattolica San Giacomo il Maggiore è festeggiato il 25 luglio.
La festa patronale dedicata a San Giacomo, sebbene sentita e partecipata, non vanta le radici secolari della festa di San Massimo, affondando le proprie origini negli albori della dominazione spagnola. La devozione a San Giacomo è, infatti, profondamente radicata nella cultura iberica, come testimoniato dal grandioso santuario di Santiago di Compostela, fulcro d’intensi pellegrinaggi che hanno attraversato tutto il Medio Evo. È importante ricordare come l’antica Chiesa di San Giacomo a Valenza edificata nel 1574 e nel 1585, oggi non più esistente, fosse tradizionalmente considerata il luogo di culto privilegiato dalla folta comunità spagnola presente in città e ciò compendiava il loro potere e la loro alterigia. Al suo interno, infatti, trovarono degna sepoltura governatori e nobili ufficiali locali provenienti dalla Spagna, celebrandoli come i migliori e suggellando ulteriormente il legame tra il mito del santo e la storia valenzana. Un fervore religioso che fa a pugni con la vita profana di oggi che vede chiese vuote o addirittura chiuse e rivitalizzate solo da qualche pastore venuto da mondi lontani.
Nel tessuto storico di Valenza, intriso di tradizioni secolari e dogmi granitici, queste festività popolari hanno pertanto sempre rappresentato un momento di aggregazione e svago per la comunità. Un chiaro esempio di questa vivace atmosfera si ritrova anche nella Fiera di San Bartolomeo, che era allora considerata come la festa patronale valenzana. S’imponeva, soprattutto, come mercato temporaneo di speciale importanza per il commercio, ragion per cui i governanti locali concedevano l’esenzione da dazi e gabelle per rendere più convenienti i prezzi delle merci vendute. Questo privilegio stimolava l’afflusso di compratori dall’esterno, attratti dalla possibilità di risparmiare e di concludere affari in modo più conveniente.
I documenti d’archivio ci rivelano che, nel corso del Settecento, i valenzani, desiderosi di ottimizzare il calendario festivo, ottennero un permesso speciale: quello di anticipare la Fiera di San Bartolomeo al mese di luglio, facendola coincidere con la solenne Festa di San Giacomo. Questa concomitanza non solo semplificò l’organizzazione degli eventi ma portò anche a una significativa evoluzione della fiera stessa, “giorno dei Santi locali e festa Patronale, momento di socializzazione attraverso manifestazioni folkloristiche e giochi popolari. Erano momenti fugaci, ma anche una valvola di sfogo e un tonico effimero per certe frustrazioni ingombranti e manichee del tempo.
L’Ottocento, portò con sé nuove usanze e nuove location per la festa patronale. Le cronache dell’epoca narrano di un’attrazione particolarmente amata dalla popolazione: il “ballo a palchetto”. Questa pista da ballo temporanea veniva allestita strategicamente al di fuori di Porta Alessandria, l’antica Porta Astiliano, sfruttando la naturale conformazione del terreno nel fondo del vallone che si estendeva tra l’attuale via Mazzini e la sede storica del rinomato Caffè Mazzini. Parallelamente, la «Spianà», un’area più ampia e pianeggiante, accoglieva una miriade di baracconi, giostre e altre forme di intrattenimento, offrendo un ventaglio di opzioni per il divertimento di grandi e piccini, ma anche un formidabile luogo di dialogo e confronto della cittadinanza. La «Spianà», tuttavia, era destinata a subire una trasformazione radicale: nel 1938, su quest’area sorsero le nuove scuole, modificando irrimediabilmente il volto della zona.
Dopo un lungo periodo d’interruzione, la solenne celebrazione religiosa di San Massimo, con una certa pompa e qualche sopravvivenza di cerimoniale antico con corteo, ceri e incensi, sarà riproposta nel 1985, incartata di valenza leggendaria e di eloquenza, posticipandola all’ultima domenica di gennaio per evitare la vicinanza con l’Epifania. Tuttavia, nonostante l’improba fatica, con il crollo del sacro e delle tradizioni religiose, questa decadente festa patronale di Valenza perderà il significato di solennità e di rito nella sua accezione originaria e precisa, cancellando anche gli ultimi residui di trascendenza e spiritualità. Poiché a ogni rilancio la penuria di fede è cresciuta e la cerimonia ha perso sempre più di efficacia: è il costo delle manifestazioni tradizionali o religiose nel tempo. L’uomo non inventa la società ma è il frutto dei suoi legami passati, sosteneva Vico.
Mentre la festività di San Massimo manterrà sempre una spiccata caratteristica religiosa, quella di San Giacomo, anche per la stagione più propizia, assumeva sempre di più connotati di festa popolare e, soprattutto, di fiera agricola-commerciale. Nel 1851 la vecchia sagra-fiera d’agosto di San Bartolomeo veniva poi definitivamente accorpata dal Comune a quella di San Giacomo che prendeva il nome esclusivo e definitivo di festa patronale locale, dove l’aspetto ludico, conviviale e gastronomico riportava alla vita grassa.
Questo evento gioioso e unitario ebbe un graduale spostamento della festa verso la piazza della Pesa, conosciuta anche come piazza Italia, e che oggi porta il nome di piazza Gramsci. Oltre alle immancabili celebrazioni religiose, solenni e sentite, che scandivano il ritmo della festa, i divertimenti offerti erano semplici, legati alla tradizione, ma capaci di suscitare grande entusiasmo. Anche un richiamo appariscente, una specie di coercizione a prenderne parte, una forma di costrizione volontaria o successoria per non essere assente dove ci sono tutti.
Oggi, queste cerimonie descritte, sfumate sempre più quasi fosse un fastidio, ci appaiono curiose e pittoresche, difficili da capire, e non so se chiamarla emancipazione o decadenza. La fine dell’illusione, o del tormento, secondo i gusti, anche se la matrice religiosa è ancora una fonte pregiata cui trarre coraggio.
O forse, più semplicemente, siamo stati festanti con poco e non lo siamo più.
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