La politica negli anni Ottanta a Valenza
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Negli anni Ottanta, un decennio segnato da trasformazioni globali e sconvolgimenti politici, l’Italia si trovò stretta nella morsa di un sistema politico dominato dal pentapartito, un’alleanza di cinque partiti spesso invischiata in pratiche di lottizzazione del potere e, purtroppo, non immune dalla piaga della corruzione, con tangenti che gettavano ombre sulla trasparenza amministrativa.
Contemporaneamente, nel più ampio scenario occidentale, si affermava un neoliberismo conservatore, una corrente di pensiero che riponeva la sua fiducia quasi cieca nel mercato e nella competizione come motori principali per rilanciare la crescita economica. Questa fede nel libero mercato prometteva prosperità, ma sollevava anche interrogativi sulle crescenti disuguaglianze sociali. In questo contesto di cambiamenti epocali, la Cina iniziava a emergere come una potenza manifatturiera, inondando i mercati globali con prodotti di basso costo come magliette e giocattoli di plastica, quasi a voler offrire un regalo al mondo, sebbene a scapito delle condizioni lavorative e dell’impatto ambientale.
Ma l’evento che avrebbe segnato indelebilmente gli anni ’80, consacrandone la gloria, fu senza dubbio la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Quel giorno storico, il muro, che per decenni aveva diviso l’Europa e il mondo, simbolo tangibile della Guerra Fredda e della divisione ideologica, fu smantellato, seppellendo con esso il comunismo reale, con tutte le sue disillusioni, le sue privazioni e, spesso, il suo disonore. La caduta del muro apriva una nuova era, segnata dalla speranza di un mondo più libero e unito. Mentre l’umanità assisteva a questi sconvolgimenti, Valenza viveva un decennio politico turbolento.
Il PCI (Partito Comunista Italiano) e il PSI (Partito Socialista Italiano), che da sempre governavano la città, non condividevano più un’alleanza armoniosa. Animosità e risentimenti si erano accumulati nel corso degli anni, erodendo la fiducia reciproca e mandando in frantumi certi equilibri politici consolidati. La frattura non si limitava alle stanze del potere, al «Palazzo», ma si insinuava anche nella mentalità di alcuni amministratori, segnando una profonda crisi interna.
All’interno del PCI valenzano, gli ultimi segretari della sezione, Richetti e Silvestrin, erano definiti, forse con un pizzico d’ironia, «ex figgicciotti», un termine che suggeriva una precedente adesione a ideali giovanili, mitigati dall’esperienza. Erano infatuati della «mitologia berlingueriana», cioè degli ideali di Enrico Berlinguer, segretario nazionale del PCI che aveva cercato di modernizzare il partito. Rappresentavano le nuove leve che aspiravano a cambiare il modo di fare politica, introducendo maggiore trasparenza e partecipazione. Tuttavia, il PCI valenzano, nonostante le speranze di molti simpatizzanti locali, non si dimostrava il partito riformista e coraggioso che molti sognavano da tempo. La resistenza al cambiamento e le dinamiche interne impedivano la realizzazione di un rinnovamento profondo, lasciando molti delusi e segnando una fase di declino per il partito a livello locale. Le promesse di innovazione si infrangevano contro la dura realtà delle tradizioni consolidate e delle divisioni interne, lasciando Valenza in un limbo politico.
Tutta la situazione politica locale si presentava complessa e stratificata, segnata da dinamiche interne ai partiti e da una persistente eco di vecchie ideologie. All’interno del Partito Comunista locale, una corrente minoritaria, che si sentiva tale da sempre, lottava per far sentire la propria voce. Questa minoranza, spesso legata a figure emergenti e a una visione più moderna della politica, si trovava a confrontarsi con un’anima del partito ancora profondamente radicata nel passato. La ferita ideologica tra i supposti «marxisti» e i «meno-marxisti» valenzani, riprendeva a pulsare sotto la superficie, alimentando tensioni e rallentando l’evoluzione del partito.
Nonostante l’ascesa di nuovi quadri femminili, che iniziavano ad assumere posizioni di maggiore responsabilità, il PCI valenzano manteneva in fondo una struttura monolitica, permeata ancora da una forte influenza filosovietica. Questa fedeltà al modello sovietico rendeva difficile l’apertura verso esperienze socialiste occidentali, considerate con sospetto e distacco.
Il «compromesso storico», la strategia politica ideata da Enrico Berlinguer volta a cercare un’alleanza con la Democrazia Cristiana, e la sua concreta applicazione sul territorio, aveva generato interrogativi drammatici e resistenze all’interno di una frangia conservatrice del partito. Si temeva che questa apertura potesse snaturare l’identità comunista e diluire i principi fondanti. I “profeti” del partito comunista locale, figure storiche come Lenti, Ravarino, Bosco, Lombardi, Tosetti e altri, continuavano a esercitare una notevole influenza. Questi comunisti, dichiarati e non nascosti, noti per il loro temperamento forte e a volte intransigente, erano però riconosciuti per la loro integrità morale. Rappresentavano un comunismo di vecchio stampo, distante dal dinamismo e dalla leggerezza che caratterizzavano le nuove generazioni di militanti. La loro visione del mondo e della politica, ancorata al passato, faticava a comprendere le nuove sfide e le nuove esigenze della società valenzana.
Parallelamente, pure la Democrazia Cristiana locale affrontava una crisi interna profonda, caratterizzata da una crescente carenza di organizzazione. Questa mancanza di struttura si traduceva in una penuria di idee e di iniziative concrete, rendendo anche questo partito incapace di rispondere efficacemente alle problematiche locali.
A volte, si riscontrava una mancanza di contatto con la realtà territoriale, un’incapacità di comprendere le dinamiche sociali ed economiche in evoluzione. In altri casi, il gruppo dirigente DC sembrava afflitto da una senilità politica accentuata, incapace di elaborare strategie innovative e di intercettare i bisogni della popolazione. Ma, ancor più delle scelte compiute, erano significative le non scelte, le occasioni mancate, le decisioni rimandate. Il partito sembrava vivere nel passato, aggrappato ai ricordi di un’epoca ormai trascorsa, incapace di rendersi conto del rapido scorrere del tempo e delle nuove sfide che si presentavano all’orizzonte. Questa inerzia politica rischiava di marginalizzare ulteriormente la DC, rendendola irrilevante nel panorama politico locale.
Nel contesto intricato delle elezioni comunali, spesso si assisteva a un fenomeno peculiare e a tratti paradossale: più che di partiti che presentavano candidati, si trattava di candidati che si appoggiavano a un partito, utilizzandolo come veicolo per le proprie ambizioni personali. La campagna elettorale, in questo scenario, era gestita in prima persona da questi aspiranti consiglieri e sindaci, desiderosi di affermarsi e di conquistare un posto di potere. Questa personalizzazione della politica locale generava inevitabilmente dinamiche interne complesse e conflittuali, spesso sfocianti in lotte sorde, astuzie e colpi bassi, senza alcuna esclusione. Dietro la facciata dell’unità partitica si celavano rancori sedimentati, rivalità latenti e ambizioni individuali contrastanti. Non era raro, infatti, che alcuni dei protagonisti di queste competizioni elettorali non si fossero mai trovati d’accordo in vita loro, alimentando un clima di tensione e di sospetto reciproco.
Nel marzo del 1981, un’ondata di rinnovamento investiva le cariche interne alla DC locale, portando con sé un certo ricambio generazionale. L’obiettivo dichiarato era quello di svecchiare le fila e di dare spazio a nuove energie, in grado di portare idee fresche e un approccio più moderno alla politica. Alla segreteria politica, tuttavia, veniva confermato Cavalli, figura di esperienza e di consolidata leadership. A lui veniva affiancato, nel ruolo di vice, il consigliere comunale Grassi, un giovane promettente di soli 23 anni, simbolo di questa apertura verso le nuove generazioni. La nomina di un giovane come Grassi rappresentava un tentativo di intercettare il consenso dei più giovani e di dare un segnale di cambiamento rispetto al passato.
Nonostante il tentativo di rinnovamento, le figure più influenti e carismatiche del partito democristiano locale rimanevano saldamente al comando. Si trattava dei «carismatici» Genovese, Manenti, Patrucco e Staurino, veri e propri notabili che esercitavano un forte ascendente sugli iscritti e sull’elettorato. Questi leader storici si distinguevano per la loro apertura e propensione al dialogo con le forze di sinistra, incarnando un approccio pragmatico e orientato alla ricerca di compromessi.
Di contro, figure come Amisano, Pino e Grassi apparivano meno disponibili al confronto, manifestando una maggiore rigidità ideologica e una certa diffidenza nei confronti degli avversari politici. Parallelamente alle figure consolidate, emergevano alcuni giovani rampanti, entrati da poco nelle grazie del partito, che si proponevano come i nuovi pretoriani di ferro, pronti a difendere l’ortodossia e a scalare le gerarchie interne. Questi giovani, animati da un forte desiderio di affermazione, non esitavano a lanciare qualche «puntura di spillo» al «carrozzone» del partito, criticando le posizioni consolidate e proponendo nuove idee.
In questo periodo, la DC locale contava circa 400 iscritti, un numero considerevole ma che rifletteva anche una certa polarizzazione demografica. L’adesione era particolarmente forte tra gli over 50 e ancor più tra gli over 60, che rappresentavano il nucleo storico e più fedele del partito. Al contrario, si registrava una scarsa partecipazione dei più giovani, che sembravano disinteressati alla politica locale o che preferivano orientarsi verso altre formazioni politiche. Questa mancanza di coinvolgimento delle nuove generazioni rappresentava una sfida importante per il futuro del partito, che rischiava di invecchiare e di perdere la sua capacità di rappresentare le istanze della società contemporanea.
Nel luglio del 1981, Il Comune di Valenza, in un tentativo di rafforzare il legame con la cittadinanza e promuovere un senso di comunità, intraprendeva un’iniziativa editoriale significativa: la pubblicazione del primo periodico mensile, battezzato «Il Comune di Valenza». Questo nuovo strumento di comunicazione veniva distribuito capillarmente a tutte le famiglie valenzane, nella speranza di informare, coinvolgere e stimolare il dibattito pubblico. Purtroppo, l’entusiasmo iniziale si scontrava presto con la dura realtà della politica locale. I contrasti, le interpretazioni divergenti e le opinioni polarizzate innescate dalle parole scritte sulle pagine del periodico si rivelavano fatali, minando la sua stabilità e decretandone una breve esistenza.
In questo panorama politico valenzano, caratterizzato da un’accesa competizione e da strategie spesso inconcludenti, emergeva un approccio pragmatico e propositivo del PCI. Mentre gli altri gruppi politici locali si perdevano in sterili disquisizioni teoriche e in una sostanziale immobilità, il PCI si distingueva per la sua capacità di affrontare concretamente alcuni problemi reali che affliggevano la comunità. Non solo, il partito dimostrava una maturità politica insolita, riconoscendo apertamente i propri errori e impegnandosi attivamente per trovare soluzioni efficaci. Questo dinamismo e questa capacità di auto-critica lo ponevano in una posizione di vantaggio rispetto agli altri attori politici, che apparivano invece statici e incapaci di reagire alle sfide del tempo, quasi «a rimorchio nella selva oscura» delle proprie incertezze. Parallelamente, la storica alleanza tra il partito socialista e il suo partner politico, consolidata da anni di collaborazione, mostrava sempre più segni di cedimento. La fedeltà, dettata forse più dalla timidezza o dalla pigrizia che da una reale condivisione di intenti, cominciava a rivelare le sue crepe.
All’inizio del decennio Ottanta, l’intesa comunale iniziava a scricchiolare sotto il peso di piccoli rimbrotti, di silenzi imbarazzati e di una mancanza di reale affinità. I due partner politici si ritrovavano costretti a convivere, in un matrimonio di convenienza sempre più logoro, simile a quello di una coppia di vecchi coniugi che, dopo anni di vita insieme, si sopportano più che amarsi. Poi la situazione precipitava fino al punto di non ritorno e, nel 1984, come una sentenza inevitabile, arrivava il divorzio politico in Comune, segnando la fine di un’era e aprendo la strada a nuovi equilibri e a nuove alleanze.
Nel panorama politico locale, il Partito Socialista si distingueva per la sua capacità di captare le trasformazioni in atto nell’elettorato. A differenza di altre forze politiche, il PSI comprendeva che il tradizionale voto di appartenenza, radicato in solide fedeltà ideologiche e familiari, stava progressivamente cedendo il passo a un voto più fluttuante, influenzato dall’opinione e orientato allo scambio di favori e promesse.
Questa capacità di adattamento e di lettura dei mutamenti sociali conferivano a questo partito un vantaggio strategico non indifferente. Pur riconoscendo il Partito Comunista come suo interlocutore privilegiato, in virtù della lunga e consolidata collaborazione nella gestione amministrativa del Comune, il PSI non si precludeva altre possibilità.
La collaborazione con il PCI, seppur segnata da tensioni e disillusioni derivanti dallo squilibrio di potere tra le due forze, non impediva al PSI di avanzare proprie proposte e di manifestare la volontà di instaurare un dialogo costruttivo con l’area «laica», comprendente partiti di ispirazione liberale, repubblicana e socialdemocratica. Questa apertura rappresentava un seme destinato a germogliare, gettando le basi per una nuova dinamica di relazioni tra le formazioni politiche locali, più fluida e meno vincolata agli schemi ideologici tradizionali. Tale evoluzione, inevitabilmente, provocava un senso di malessere e apprensione tra i comunisti valenzani, che vedevano erodersi la loro egemonia e la loro posizione di forza.
Infatti, a partire dal 1981, emergevano crescenti dissidi tra il PSI e il PCI, che incrinavano la solidità dell’alleanza di governo. I rapporti tra i due partiti, un tempo improntati a una collaborazione apparentemente idilliaca, si deterioravano progressivamente. Oltre alle divergenze ideologiche di fondo, che rimanevano latenti ma sempre presenti, balzavano alla ribalta concezioni divergenti sul futuro sviluppo della città. Si discuteva animatamente di «politica artigianale», di un «palazzo degli affari» (probabilmente un centro congressi o un polo fieristico) e di altre iniziative urbanistiche che riflettevano visioni contrastanti sull’identità e la vocazione di Valenza, come alcuni altri arrugginiti nodi irrisolti.
Tuttavia, era soprattutto la controversia sulla spartizione dei posti dirigenziali all’interno della USL 71 (Unità Sanitaria Locale) a portare il rapporto tra i due partiti sull’orlo della rottura. La gestione della sanità locale, con le sue implicazioni in termini di potere e di controllo delle risorse, era diventata un terreno di scontro particolarmente acceso. Nonostante i segnali premonitori di questa crisi imminente, i comunisti non sembravano manifestare eccessiva preoccupazione per la piega che stavano prendendo gli avvenimenti. Presumibilmente, riponevano ancora fiducia nella propria capacità di persuadere e di ricondurre i socialisti a più miti consigli, riportandoli nell’alveo della collaborazione tradizionale. Tuttavia, questa ipotesi appariva sempre meno verosimile, dato il crescente divario tra le posizioni dei due partiti e la determinazione del PSI a rivendicare un ruolo più incisivo nella politica locale.
Il freddo pungente del 13-14 dicembre 1981, con la sua promessa di festività imminenti, non portava sollievo allo scenario politico locale poiché innescava la consueta, e ormai tristemente familiare, competizione politica che da tempo aveva iniziato a svuotare di significato gli Organi collegiali della scuola. Questi, nati con l’ambizione di essere spazio di dialogo e collaborazione, si erano trasformati in un’arena dove le schermaglie partitiche prendevano il sopravvento, un luogo che, nel profondo, avrebbe desiderato ardentemente farne a meno. In tutti gli ordini di scuola del Distretto valenzano, le liste d’ispirazione cristiana conseguivano un notevole successo, consolidando ulteriormente la polarizzazione politica.
Parallelamente a questo clima teso, verso la fine dell’anno, un evento tanto atteso quanto discusso si rendeva concreto: l’avvio dell’attività della piscina comunale coperta. Era stata, senza ombra di dubbio, la struttura più desiderata dai valenzani, una promessa accarezzata per anni, un progetto lungamente atteso. Ma era anche la più costosa, un investimento considerevole per le casse comunali e, come si sarebbe presto dimostrato, sarebbe diventata la più tribolata, un fardello di problemi e controversie. L’inaugurazione della piscina, anziché unire la cittadinanza in un sentimento di orgoglio e condivisione, apriva un nuovo fronte di battaglia politica. La polemica divampò rapidamente e, inevitabilmente, tra comunisti e socialisti i ponti, già precari, saltavano di nuovo.
La nuova società sportiva di nuoto, incaricata della gestione della struttura, veniva immediatamente presa di mira dall’opposizione, definita con toni aspri e ironici come un’entità «a responsabilità comunista quasi illimitata» e di natura «partitico-familiare», insinuando favoritismi e opacità nella sua composizione. Sembrava che un virus invisibile, capace di azzerare il buon senso e annebbiare la lucidità mentale, si fosse diffuso in città. Quando gli animi sono esacerbati, quando la sfiducia è radicata, ogni minima occasione di scontro, per quanto futile, viene colta al volo. Basta un battito di ciglio, un’inezia, per dare stura all’insofferenza accumulata, che funge da propedeutica ad ogni dissidio, ad ogni litigio.
Il matrimonio politico, metaforicamente parlando, era ormai logoro, segnato da molti bassi e pochissimi alti, un rapporto fragile e instabile, sull’orlo del collasso. L’inaugurazione della piscina, lungi dal rappresentare un nuovo inizio, si rivelava un ulteriore tassello di un mosaico politico sempre più frammentato e conflittuale.
L’amen era recitato nella seduta consigliare del 17 marzo 1982. Le tensioni, già palpabili da tempo, esplosero in un acceso scontro verbale. I rappresentanti del Partito Socialista, animati da un evidente risentimento, levarono alte le loro voci, denunciando con veemenza quello che percepivano come un comportamento egemonico da parte del Partito Comunista. L’accusa era grave e pesava come un macigno sull’equilibrio politico della giunta. Nel culmine della disputa, i socialisti annunciavano la loro irrevocabile decisione di dimettersi in massa, abbandonando i loro incarichi all’interno dell’amministrazione. Questa mossa drammatica lasciava i comunisti in una posizione di isolamento, relegati a governare la città con un monocolore politico, una situazione tanto inattesa quanto delicata.
Nonostante l’apparente forza del PCI, detentore di una maggioranza numerica (16 consiglieri su 30) conseguita grazie a un favorevole risultato nelle ultime elezioni comunali (con il 45% dei voti), la loro leadership si trovava ora in una situazione di profonda fragilità politica. Era una classica «buccia di banana», un imprevisto che si sommava a una situazione già tesa e carica di problematiche irrisolte, la «goccia» che faceva traboccare il vaso.
A seguito delle dimissioni socialiste, furono chiamati Bellini e Leoncini a sostituire gli assessori uscenti, entrambi esponenti di spicco del PCI. Siligardi e Lottici, i dimissionari del PSI, lasciavano un vuoto significativo nell’amministrazione. Per lo PSI, questa rottura segnava un passaggio a una posizione ambigua, oscillante tra l’indipendenza e l’opportunismo. Non più parte della maggioranza, ma neanche apertamente schierati all’opposizione; i socialisti adotteranno spesso la tattica dell’astensione, un modo per marcare la distanza e mantenere aperte diverse opzioni politiche.
Emblematico di questa nuova dinamica sarà il dibattito e l’approvazione del bilancio comunale per il 1982. Un bilancio di notevole entità, superiore ai 34 miliardi di lire, che, secondo molti osservatori, profumava già di campagna elettorale. Il documento finanziario venne approvato grazie ai voti congiunti del PCI e del Partito Repubblicano Italiano, mentre lo PSI, passando dalla retorica ai fatti, si astenne, confermando la sua posizione neutrale. La Democrazia Cristiana, invece, si oppose con fermezza, votando contro il bilancio.
Nel frattempo, a livello nazionale, il quadro politico italiano si presentava estremamente instabile e frammentato. Negli ultimi due anni, gli italiani avevano assistito con crescente preoccupazione al susseguirsi di ben sei governi diversi: i due governi Cossiga, i governi Forlani e Spadolini (anch’essi in due versioni), e infine il governo Fanfani. Questa turbolenza politica culminò nella decisione di indire nuove elezioni anticipate per il 27-28 giugno 1983.
La città di Valenza si preparava quindi a un doppio appuntamento elettorale: le elezioni politiche nazionali e, contemporaneamente, le elezioni amministrative comunali. Erano queste ultime a suscitare il maggiore interesse e a surriscaldare l’atmosfera politica locale, promettendo una campagna elettorale particolarmente accesa e, purtroppo, carica di veleni e recriminazioni. La lotta per il controllo del Comune si preannunciava spietata, con conseguenze potenzialmente significative per il futuro della città.
La politica locale era in fermento. Nel panorama frammentato della fine degli anni ’70 e inizio ’80, una nuova entità politica si profilava all’orizzonte: una lista denominata “Polo Laico”, frutto dell’alleanza tra il Partito Repubblicano Italiano (PRI), il Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI) e il Partito Liberale Italiano (PLI). Questa coalizione si presentava come una «terza via» audace e, a detta di molti, eccessivamente presuntuosa. Ambiva a posizionarsi al di fuori degli schemi consolidati, distanziandosi sia dal rigido statalismo socialista imperante, sia da un liberalismo considerato «selvaggio» e adattato al contesto locale. Tuttavia, le origini di questa alleanza non erano delle più rosee. Nella precedente consultazione del 1978, i partiti che componevano il «Polo Laico» avevano racimolato un risultato piuttosto modesto, quasi irrisorio, culminando nell’elezione di un unico consigliere comunale. La Democrazia Cristiana, nel frattempo, si proponeva con crescente insistenza come alternativa alla sinistra, auspicando la formazione di una giunta che includesse il Polo Laico e il Partito Socialista.
Le elezioni comunali del 1983 rappresentarono un momento cruciale. I comunisti, trainati dalla forza del Partito, ottennero un significativo 45% dei voti. I socialisti si attestarono al 12%, mentre la DC raggiunse il 25%. A sorpresa, il Polo Laico conquistò un ragguardevole 14%, dimostrando di aver saputo intercettare una parte consistente dell’elettorato.
A seguito di questi risultati, si scatenava una serrata attività di corteggiamento politico. Democristiani e membri del Polo Laico rivolsero le proprie attenzioni ai socialisti, nella speranza di stringere un’alleanza stabile. Tuttavia, queste trattative furono segnate da frequenti «baruffe chiozzotte», litigi e schermaglie tra i tanti «cicisbei politici» che si atteggiavano ad alleati. Dietro sorrisi di circostanza e promesse di collaborazione, si celavano ambizioni personali e divergenze ideologiche che rendevano difficile la costruzione di un fronte unito.
In questo scenario complesso, il Movimento Sociale Italiano (MSI), presente in consiglio comunale con un seggio, poneva seri dubbi sulla reale possibilità di un cambiamento di governo cittadino. Paradossalmente, la sua posizione defilata e la sua intransigenza ideologica finivano per avvantaggiare il suo peggior nemico, il PCI, contribuendo a mantenere inalterato lo status quo.
La situazione era intricata. Polo, DC e PSI, pur sommando le proprie forze, non raggiungevano la maggioranza necessaria per governare. Con soli 15 seggi su 30, non avevano altra scelta se non quella di accettare, esplicitamente o implicitamente, il voto del MSI per dare vita a una giunta. Una prospettiva che sollevava non poche perplessità e che rischiava di compromettere la credibilità e la coesione dell’intera operazione politica. L’equilibrio precario e le tensioni latenti rendevano il futuro politico della città incerto e imprevedibile. Le decisioni che sarebbero state prese nei giorni seguenti avrebbero plasmato il destino della comunità per gli anni a venire.
Il clima politico locale si faceva sempre più denso, un intreccio di manovre e calcoli che presagiva una svolta. Gli incontri tra i rappresentanti dei vari partiti si susseguivano con frequenza quasi febbrile, sintomo di un equilibrio precario e di una competizione accesa. Un dato in particolare spiccava, segnando una rottura con il passato: il Partito Comunista, per anni dominatore incontrastato della scena politica locale, aveva perso la maggioranza assoluta dei consiglieri. Questa erosione del potere comunista apriva le porte a nuove dinamiche, alimentando le ambizioni delle altre forze politiche.
A rafforzare ulteriormente questa trasformazione, si era fatta largo una nuova entità politica, il Polo Laico, una formazione che, pur non dichiarandosi apertamente populista, ne incarnava alcune delle caratteristiche, raccogliendo consensi tra un elettorato insoddisfatto dalle politiche tradizionali. Con ben quattro rappresentanti in consiglio, il Polo Laico si candidava a giocare un ruolo significativo nella futura governance locale. Parallelamente, il Partito Repubblicano Italiano aveva registrato una notevole progressione nei suffragi, una crescita che lo poneva in una posizione di forza, conferendogli un peso maggiore nelle trattative e la possibilità concreta di influenzare le decisioni politiche. L’ascesa del PRI rappresentava un nuovo elemento di instabilità, complicando ulteriormente il già complesso quadro politico.
La Democrazia Cristiana, tradizionalmente un pilastro della politica italiana, aveva subito un contraccolpo, penalizzata dalla concomitanza delle elezioni locali con le elezioni politiche nazionali. La perdita di due consiglieri rappresentava un segnale di debolezza, seppur non tale da comprometterne il ruolo di protagonista. Le trattative per la formazione della nuova giunta si rivelarono un vero e proprio labirinto, un percorso tortuoso disseminato di ostacoli e ripensamenti. Furono lunghe, estenuanti e più volte sull’orlo del fallimento, un continuo tira e molla che sembrava non portare a nulla di concreto. Era come essere intrappolati in una partita al gioco dell’oca, dove, a ogni passo avanti, un inatteso «maleficio» rispediva tutti al punto di partenza, frustrando ogni tentativo di raggiungere un accordo.
I rappresentanti dei vari partiti si stavano progressivamente avvitando in un’ennesima spirale di scontri e recriminazioni, un circolo vizioso che, al termine di ogni round negoziale, lasciava in mano un misero «non risultato». La situazione era talmente stagnante da generare frustrazione e sfiducia nell’elettorato. Di fronte a questo quadro intricato e incerto, i comunisti cercavano disperatamente una soluzione, un modo per «salvare capre, cavoli e cavolfiori», ovvero a preservare i loro interessi e la loro influenza senza compromettere eccessivamente la loro immagine. Si trovavano di fronte a un bivio: da un lato, la possibilità di «calare le braghe», in altre parole cedere alle richieste dei socialisti, accettando un compromesso che avrebbe intaccato la loro reputazione e il loro prestigio, dall’altro, il rischio di dire addio a certe poltrone, rinunciando a posizioni di potere che avevano detenuto per anni.
Alla fine, dopo settimane di intense riflessioni e accese discussioni interne, i comunisti si dovettero arrendere all’evidenza e accettare la realtà dei fatti. Compresero che l’unica via d’uscita era quella di fare un passo indietro e offrire allo PSI la carica di primo cittadino. Era una decisione senza precedenti, una rottura con la tradizione che avrebbe segnato una svolta storica nella politica locale. Escluso la nomina del sindaco socialista della Liberazione, Marchese, non era più successo che un socialista ricoprisse quella carica, ma come si suol dire, c’è sempre una prima volta (o seconda). Anche ai migliori, anche a coloro che per anni avevano dominato la scena politica, capita di dover cambiare idea, di adattarsi alle nuove circostanze e di accettare compromessi per il bene della comunità. Il vento stava cambiando, e persino il Partito Comunista, un tempo baluardo dell’ortodossia ideologica, doveva prenderne atto.
Dopo tre mesi di annusamenti e prove d’intesa, dietrofront e ripensamenti, prevaleva l’anima pragmatica di alcuni padri nobili, Valenza aveva finalmente un sindaco: il socialista Franco Cantamessa, che riceveva in premio una croce e una gita sul calvario.
Per dirla tutta, questa combinazione, da puzzle, si era trasformata in pastrocchio e ben presto diventava sempre più improbabile la prosecuzione di quest’esperienza di giunta, che, infatti, naufragava dopo poco tempo.
La seduta consigliare del 12 ottobre 1984, che insediava un nuovo sindaco e una nuova giunta, si trasformava in un deplorevole reality show di cinque ore e, dopo circa quarant’anni, il PCI valenzano restava senza “poltrone” a Palazzo Pellizzari: si era illuminato d’immenso e infine era precipitato. Nuovo sindaco diventava Gino Gaia dello PSDI, con una maggioranza che definire eterogenea – DC, PSI, POLO LAICO – è un eufemismo. Durerà anch’essa solo nove mesi, spostando la resa dei conti solo poco più in là.
Il Piccolo – Sabato 20 ottobre 1984
Il Piccolo – Mercoledì 24 ottobre 1984
Con la fine del mandato dei sindaci di transizione, l’esegeta socialista Franco Cantamessa e il perituro socialdemocratico Gino Gaia, la compagine politica aderente alla dittatura del proletariato si trovò a un punto di svolta. Le elezioni del 1985, con il Partito Comunista attestato al 41,85%, la Democrazia Cristiana al 30,33% e il Polo Laico e i Socialisti insieme al 20,68%, rappresentarono il momento cruciale. Furono proprio i socialisti, con una mossa strategica, a fornire la «spintarella finale» che sancì la fine del dominio dei comunisti e la loro uscita dalla guida di Palazzo Pellizzari.
Ai primi di dicembre del 1985, l’ingegnere Cesare Baccigaluppi, esponente del Partito Socialista Italiano, prestava giuramento nelle mani del Prefetto, assumendo ufficialmente la carica di neosindaco. Si preparava a guidare una giunta inedita, composta da forze dissimili, nonostante non avesse mai militato attivamente nella politica cittadina. Baccigaluppi era noto per la sua professionalità e serietà, qualità che però non si traducevano in un forte ascendente all’interno del suo stesso partito. Affronterà la nuova sfida con passione e dedizione, trovandosi tuttavia immerso in un ambiente politico ingessato, erede di una tradizione conservatrice che lo avrebbe «cotto a fuoco lento» fino alla fine del suo mandato.
Il Piccolo – Mercoledì 4 dicembre 1985
La frattura politica nella sinistra locale, e non solo, era diventata insanabile. I comunisti, colti di sorpresa e sentendosi quasi raggirati, terminavano la loro lunga stagione di potere, un destino, a ben vedere, comune a chi, assuefatto al successo prolungato, finisce per credersi invincibile. I socialisti, rompendo gli schemi tradizionali, intraprendevano un’alleanza inusuale con la Democrazia Cristiana e le forze del Polo Laico (Partito Repubblicano Italiano – Partito Socialista Democratico Italiano, Partito Liberale Italiano), uniti dall’obiettivo comune di governare la città. L’ampio spettro ideologico, che spaziava dai cattolici ai miscredenti, sembrava unito da un unico denominatore: la sete di potere.
In quel particolare momento storico, l’eterogeneità ideologica parve non importare, e, come si suol dire, «tutto faceva brodo» pur di raggiungere l’agognato obiettivo. La contesa politica, una danza eterna di promesse e disillusioni, pareva destinata a non trovare mai una conclusione definitiva. Il panorama politico locale si apprestava a subire un’ulteriore metamorfosi, un gioco di maschere e ribaltamenti di fronte che avrebbe lasciato il segno.
I socialisti, abbandonata la retorica dei decenni passati e assumendo una veste sorprendentemente simile a quella delle «tricoteuse» d’antan, figure che, invece di assistere impassibili alla ghigliottina si dedicarono a un’inattesa conversione moderata, si avvicinarono, quasi fondendosi, alle posizioni dei democristiani.
Questi ultimi, finalmente giunti al timone della città dopo anni di attesa, si ritrovarono invischiati nelle dinamiche del potere, perdendo, in un lento e inesorabile stillicidio, la credibilità e il prestigio che tanto avevano agognato. Un’amara riflessione suggerisce, peraltro, che la perdita presuppone un possesso precedente, un’aura di rispettabilità che, forse, non era mai stata pienamente acquisita.
In questo clima d’incertezza e disillusione, si profilava all’orizzonte un movimento nuovo, una forza politica di difficile interpretazione, animata da un desiderio di autonomia e di purezza ideologica. La Lega Nord, con la sua retorica identitaria e il suo appello alle radici, sembrava una formazione tribale, un gruppo coeso e compatto, forte del carisma dell’integrità. Questa nuova realtà, nel corso del tempo, avrebbe continuato a spaventare le cariatidi della vecchia politica, le figure stanche e decrepite che si aggrappavano disperatamente alla loro quota di potere. Parlare con schiettezza, usare un linguaggio diretto e senza fronzoli, si stava affermando come una tendenza sempre più in voga, un’arma efficace per smascherare l’ipocrisia e il conformismo dominanti. La sfida era aperta, e la partita politica si apprestava a entrare in una fase ancora più imprevedibile e caotica.
Il fragore della caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, non fu soltanto un evento fisico, ma un sisma politico che scosse le fondamenta dell’Europa e del mondo. Veniva sancita, in modo inequivocabile, «la fine di un’epoca», un’epoca dominata dalla Guerra Fredda, dalla divisione ideologica e dalla minaccia costante di un conflitto nucleare. L’onda d’urto di questo avvenimento si propagò inesorabilmente attraverso i paesi dell’Europa dell’Est, accelerando processi di cambiamento già in atto e innescandone di nuovi, impensabili fino a poco tempo prima.
In Italia, Achille Occhetto, il segretario del Partito Comunista Italiano, eletto l’anno precedente e già fautore di una linea riformatrice, percepì immediatamente la portata storica di questo momento. Annunciò, con una decisione che avrebbe segnato per sempre la storia della sinistra italiana, la trasformazione del PCI, un partito nato dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale e legato indissolubilmente all’ideologia marxista-leninista. La scelta, lungamente meditata e accompagnata da un profondo travaglio psicologico sia a livello personale che collettivo, sarà poi ratificata dal congresso del gennaio 1991, da cui nascerà il Partito Democratico della Sinistra (PDS).
Prima di chiudere definitivamente le porte alla vecchia «bottega» e riaprirle con la nuova insegna, più moderna e meno compromettente, nell’animo dei tardo-marxisti del Valentia, radicati nella realtà locale e abituati a schemi consolidati, convivevano e configgevano sentimenti contrastanti. Da un lato, l’entusiasmo e il desiderio di affrontare la nuova avventura politica, di partecipare alla costruzione di un futuro diverso e di non rimanere ancorati al passato. Dall’altro, la paura di rimpiangere quel passato, di aver compiuto una scelta sbagliata, di aver abbandonato i valori e gli ideali che avevano animato la loro militanza per decenni.
A Valenza e dintorni, il tempo sembrava scorrere più lentamente, conservando le tracce di un’epoca ormai al tramonto. Ora che il Muro era crollato addosso, metaforicamente e non, il mal di capo era fortissimo, la confusione regnava sovrana. Era arduo scordare gli slogan del vecchio PCI, la retorica della lotta di classe, le promesse di un futuro radioso sotto la guida del proletariato, la propaganda che paventava la trasformazione del nostro paese in una fotocopia della Germania Est, un incubo sventolato ad arte dall’opposizione per alimentare le paure della popolazione.
A Valenza, inevitabilmente, qualcuno, con la disinvoltura tipica di chi vuole cavalcare l’onda del cambiamento, dichiarava di non essere mai stato veramente comunista, ma soltanto «berlingueriano», ammiccando a Enrico Berlinguer, segretario del PCI più incline al compromesso e all’eurocomunismo. Un’affermazione che suonava come una sorta di «larghe intese» ante litteram, un tentativo di mediazione tra anime diverse, un modo per attenuare le posizioni più estreme e rendersi più presentabili al nuovo scenario politico. Altri consideravano il marxismo quasi una curiosità numismatica, un pezzo da collezione ormai privo di valore pratico.
Nonostante le dichiarazioni e le apparenti metamorfosi, la «ditta», come veniva affettuosamente e ironicamente chiamato il partito, rimaneva sostanzialmente nelle consuete mani, con i fantasmi dei propri ideali perduti a tormentare le coscienze e ad alimentare un certo senso di smarrimento.
Già al 19° congresso del PCI di Valenza, tenutosi il 26-27-28 febbraio 1986 al Valentia, veniva aperto un capitolo nuovo per Valenza. Dopo le sconfitte subite era naturale che ci fosse una riflessione interna. Due le tesi: crisi ideologica e quindi politica, adeguamento alla moderna società democratica con un’azione che andava «profondamente ritoccata». Bene, così i riformisti erano felici del participio passato (ritoccata), e i massimalisti dell’avverbio (profondamente).
Il partito comunista valenzano, infine, voltava pagina e, stravolgendo le gerarchie, si affidava a un nuovo gruppo dirigente nel quale di capi storici se ne contavano meno. Era però un partito logorato anche da tensioni per la leadership. Doveva tenere insieme, da una parte il gruppo giovane proveniente da Avanguardia Operaia (Borioli, Bove, ecc.), da un’altra parte i “senatori” (Ravarino, Bosco, ecc.); poi c’era l’altro gruppo giovanile della FGCI (Pistillo, Legora S., Lenti A., Negri, ecc.), quello più vicino alla linea nazionale occhettiana e a quella valenzana dell’ex sindaco Lenti, per la trasformazione del partito (Bertolotti, Buzio, Ruzza, ecc.). Pochissimi i miglioristi favorevoli ad avvicinare il PCI al riformismo del «cinghialone». Il leader futuro Tosetti, sostenuto dall’ala sindacale operaista, stava invece ancora cercando aiuti e sostegni. Ipercompetitivo, non amava troppo gli smarcamenti, e troppo poco i mischiamenti. Lo si vedrà invecchiare con la fascia tricolore al collo.
Il nuovo Comitato direttivo veniva composto da: Bosco, Buzio, De Bertolo, De Cicco, Di Carmelo, Di Pasquale, Giordano, Legora, Leoncini, Lonetti, Norese, Pisani, Pistillo, Richetti, Rossin, Ruzza, Silvestrin. L’assise vedeva la sofferta uscita dalla scena politica di un simbolo e una bandiera carismatica del partito: Luciano Lenti. Nessuno più di lui ha interpretato e riassunto le contraddizioni del ricco borghese comunista valenzano.
Ormai si registrava anche una certa fuga di cattolici dalla politica attiva, un disimpegno dovuto probabilmente alla crisi dei partiti di ispirazione democristiana e alla difficoltà di trovare una nuova collocazione in un panorama politico in rapida evoluzione. Il venire meno di una forte identità ideologica e di un progetto politico condiviso contribuiva a creare un clima di incertezza e di sfiducia verso la politica, spingendo molti ad abbandonare la scena pubblica e a rifugiarsi nella sfera privata.
Il panorama sociale si era trasformato, lasciandosi alle spalle forme di impegno più gravose per abbracciare un volontariato edulcorato, intriso di messaggi positivi facili da veicolare, ma privo della profondità e della fatica che il Vangelo, nella sua essenza più autentica, suggeriva. L’abnegazione silenziosa, il sacrificio personale e l’impegno costante venivano soppiantati da azioni sporadiche e appaganti, che davano un immediato senso di realizzazione senza richiedere un vero e proprio investimento emotivo. Le aggregazioni sociali locali, come funghi dopo la pioggia, erano spuntate ovunque in questi anni, testimoniando un bisogno di connessione e di partecipazione dal basso. Tuttavia, queste nuove forme di socialità, per quanto vitali e promettenti, sembravano spesso rifuggire la complessità e l’impegno a lungo termine.
La messa domenicale, un tempo fulcro della vita comunitaria, densa di storia, di preghiere sussurrate e di una devozione palpabile, era ormai relegata a un ruolo marginale, superata da un individualismo crescente e da nuove forme di spiritualità più liquide e personalizzate. I democristiani quand’erano devoti e antiquati all’opposizione si affidavano alla Madonna, ora che erano diventati moderni, maturi e al potere, si affidavano più che altro alla fortuna. Lasciando quasi credere di essere novizi.
Nel giugno del 1988, Cavalli sostituiva il segretario dimissionario Vanin – eletto nel 1986 al posto di Grassi – e, nel novembre 1989, era Raselli a divenire segretario con un nuovo direttivo, composto da Bonzano, Bossio, Cavalli, Daricco, Ferrari Grassi, Montini, Omodeo, Panelli, Pezzella, Pino E., (il più pugnace all’interno e all’esterno), Pino F., Ponzano, Vanin A. e Vanin C. Defilati, ma c’erano, Manenti, Staurino, Patrucco e Genovese, simboli e alfieri della DC valenzana da trent’anni.
Nello PSI si sentiva il profumo d’arroganza; questo partito (con atteggiamenti opportunistici) ormai tendeva a dipingersi come l’unico depositario dell’efficienza e del progressismo e faceva sempre più intendere che senza di lui non ci sarebbero state né giunte né maggioranze stabili: forse bisognava semplicemente consegnargli le chiavi e le poltrone. A Valenza e nell’alessandrino le due anime del partito erano inverse a quelle nazionali. Qui era sempre la sinistra socialista ad avere la maggioranza, anche se con un atteggiamento meno ideologico e più pragmatico – i craxiani non avevano che pochi simpatizzanti tra quelli che più contavano – ma l’unione con i partiti di centro in Comune contraddiceva per molti socialisti valenzani una virtù importante: la coerenza politica. Il partito aveva abbandonato l’ideologia marxista, ma si era fatto promotore di tutte le campagne ispirate al radicalismo e all’individualismo libertario e permissivo. Si vedrà costretto ad affrontare una sfida inedita: quella con il partito comunista, sullo stesso terreno del riformismo e della socialdemocrazia.
I dirigenti più attivi erano Cantamessa, Lottici, Zanotto, Moncalieri, Monaco, Borsalino, Mancino, Stanchi e, l’onnipresente di tutti i tempi, Gianfranco Pittatore, che fiuterà ben presto l’aria nuova e muterà rotta puntando, con successo, su altre destinazioni. A lui, figura chiave, si addiceva il proverbio «nemo propheta in patria», ma solo per sogli politici. Pittatore, finanziere e commercialista, diventerà forse l’uomo più importante della provincia nei prossimi anni, terrà per quasi vent’anni la più grande cassaforte provinciale – dal 1991, sino alla morte nel 2009, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria e dal 1991 al 2001, anche presidente della CrAl spa.
Il PRI non saprà radicare una struttura organizzativa capace di dialogare con la gente; la leadership era stata importante, ma ormai questa non bastava. Alla fine del decennio sembrava un gruppo deconcentrato, quasi appagato. Un’altra malinconica storia potrebbe essere definita quella dei socialdemocratici ormai allo sbando anche a livello nazionale. In tutti i gruppi politici minori si avvertiva la debolezza di vita e di idee.
Anche negli anni Ottanta del Novecento, svariate figure granitiche, poco inclini a sporcarsi le mani e ad affrontare le sfide reali della comunità valenzana, occupavano le poltrone locali del «potere». Eletti o designati non per le loro competenze o per la loro visione, ma in virtù di complesse reti clientelari e di favoritismi di partito, si aggrappavano alle loro posizioni con tenacia. Il loro obiettivo non era quello di servire il bene comune, ma di assicurarsi un posto al sole, anche a costo di recitare la parte del comprimario pur di rimanere ancorati al potere. Anche in questo decennio l’esperienza e la competenza sono state spesso sacrificate sull’altare della fedeltà al partito, e anche quando si intravedeva qualche sprazzo di innovazione, questo è stato spesso soffocato dalla burocrazia e dagli interessi consolidati.