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    Pier Giorgio Maggiora  
    18 Maggio 2025
    ore
    08:23 Logo Newsguard
    Il saggio

    Storia economica e sociale di Valenza negli anni Ottanta

    L'approfondimento del professor Maggiora

    VALENZA – Negli anni Ottanta del Novecento, l’Italia assisteva al consolidamento di uno stile di vita radicalmente diverso dal passato, plasmato dall’esteriorità, dal consumismo sfrenato e dalla ricerca incessante dello svago. È stato un decennio dominato dalla tecnologia in rapida espansione, dall’amplificazione mediatica di ogni aspetto della vita e da un crescente narcisismo individualista. La società si era frammentata, e l’individuo tendeva a rinchiudersi in se stesso, creando un microcosmo isolato, spesso preda della solitudine esistenziale. Il benessere materiale, pur diffuso, non sembrava colmare il vuoto spirituale che serpeggiava tra la popolazione.

    A Valenza, la prospera onda lunga del «baby boom» degli anni Sessanta si stava esaurendo implacabilmente. La città, anagraficamente in declino, cominciava a perdere abitanti, e sempre meno giovani si affacciavano sul mercato del lavoro, un chiaro sintomo del cambiamento demografico e della crisi economica incipiente. L’apprendistato, che nel 1970 vantava circa 1.000 iscritti, simbolo di un sistema produttivo in crescita e di un’offerta di lavoro ben definita, nel 1990, pur se riformulato, era quasi completamente scomparso, lasciando presagire un futuro incerto per le nuove generazioni.

    Se si ripercorre la storia demografica, dall’inizio del secolo XX fino al 1980 la popolazione valenzana è raddoppiata, un’espansione notevole dovuta a fattori come l’industrializzazione e le migrazioni interne. Il censimento del 25 ottobre 1981 registrava una popolazione di 22.606 abitanti, un picco che segnava l’inizio di un declino lento ma inesorabile. I dati relativi allo stato civile nel 1980 ci offrono un quadro dettagliato della struttura sociale dell’epoca: 4.655 celibi, 4.059 nubili, 6.231 coniugati, 6.265 coniugate, 281 vedovi, 1.656 vedove, 36 divorziati e 40 divorziate. Queste cifre, apparentemente fredde e impersonali, raccontano storie di vita, di amori, di perdite e di cambiamenti sociali. L’incremento dei divorzi, seppur contenuto, era un segnale dei nuovi valori che si facevano strada nella società locale, mettendo in discussione i modelli familiari tradizionali.

    Cambiavano i rapporti tra uomini e donne e mutavano i rapporti sociali e quelli politici erano sempre più tesi; si entrava in un’epoca che avrebbe voltato le spalle alla fede e ai legami religiosi. Certe cerimonie non erano più di moda e le parrocchie non erano più le attinenze di una volta, fatte di profonde e consolidate radici cattoliche.

    La sfida era evidente: se si era arrivati a 23.000 abitanti grazie all’alto tasso di natalità, per restare sopra i ventimila, negli anni a venire, e senza successo, si doveva contare sempre più sulla componente migratoria, con un’intensità crescente e in misura pressoché esclusiva. L’immigrazione, dunque, diventava non solo una necessità demografica, ma anche un elemento fondamentale per la sopravvivenza economica e sociale della città.

    Anche a Valenza, come nel resto del paese, la scuola stava subendo una trasformazione profonda, diventando sempre più una zona esterna imbizzarrita della società e sempre meno il laboratorio fondamentale del futuro, anziché il luogo in cui si forgiano le menti e si preparano i cittadini del domani. Aveva perso la sua centralità, la sua capacità di influenzare positivamente la società. I genitori, in un clima di crescente competizione e di ansia per il futuro dei figli, erano sempre più sindacalisti dei figli, pronti a difendere i loro interessi individuali a scapito del bene comune e della formazione di una coscienza civica. L’autorità degli insegnanti era messa in discussione, e il rapporto tra scuola e famiglia diventava sempre più conflittuale. La scuola, da motore di progresso e di integrazione sociale, rischiava di trasformarsi in un mero parcheggio per giovani in attesa di un futuro incerto. Questo scenario, caratterizzato da individualismo, consumismo e perdita di valori, gettava un’ombra lunga sul futuro.

    A Valenza, un’analisi più approfondita dei livelli di istruzione rivela un quadro interessante della composizione socio-culturale della popolazione in quegli anni. Circa 300 individui potevano vantare un titolo di laurea, attestando un buon livello di specializzazione accademica. Un numero significativamente maggiore, stimabile intorno ai 2.000, aveva conseguito un diploma di scuola superiore, indicando una solida base di istruzione secondaria e, in molti casi, una preparazione specifica per il mondo del lavoro. La fascia più ampia della popolazione, quasi 6.000 persone, possedeva la licenza di scuola media inferiore, evidenziando una diffusione dell’istruzione di base accessibile alla maggior parte dei residenti. Fortunatamente, il numero di analfabeti a Valenza era relativamente contenuto, attestato intorno alle 200 unità, suggerendo un impegno continuo per combattere l’analfabetismo e a promuovere l’alfabetizzazione anche tra le fasce di popolazione più vulnerabili. Questo dato, pur non essendo trascurabile, sottolinea un progresso rispetto a periodi storici in cui l’analfabetismo era un problema più diffuso. L’insieme di queste cifre offre una prospettiva più completa sulla distribuzione dei livelli di istruzione a Valenza, consentendo una migliore comprensione delle risorse umane e delle potenzialità di sviluppo della comunità locale negli anni Ottanta del secolo scorso. Ma solo a pochi interessava raccontare cosa stava succedendo. Nella migliore delle ipotesi perché non l’avevano capito.

    La popolazione attiva contava circa 9.000 occupati, affiancati da una cifra di 300 disoccupati iscritti (un dato poco reale). Si stimava inoltre la presenza di circa 400 persone attivamente alla ricerca di un impiego. Un’analisi più dettagliata emerge dai dati del censimento del 1981, che nel settore cruciale delle «Industrie manifatturiere diverse», comprendente l’oreficeria, rivela la presenza di 1.224 unità locali, con un totale di 5.805 addetti. Di queste, 1.173 sono state classificate come unità locali artigiane, con un organico di 5.322 addetti, sottolineando così il peso significativo dell’artigianato nel tessuto produttivo locale del periodo.

    La figura centrale dell’artigiano orafo valenzano, un soggetto economico ibrido che incarnava spesso sia il ruolo di proprietario dei mezzi di produzione che di lavoratore per conto terzi, si trovava ad operare in un contesto nebuloso e mal definito. Questa ambiguità generava inevitabilmente preoccupazioni, incertezze e responsabilità di natura fiscale, contributiva e giuridica. Di fronte a tali sfide, l’evasione fiscale si presentava, in molti casi, come un espediente indispensabile per garantire la mera sopravvivenza dell’attività.

    L’industria orafa, peraltro, si trovava immersa in un clima di stagnazione preoccupante, con conseguenti ripercussioni drammatiche sul mantenimento dei livelli occupazionali. Valenza, pur godendo di un vantaggio comparativo rispetto ad altri centri orafi, derivante dal crescente valore dell’oro (una componente significativa, ma non dominante, del costo del prodotto finito), non era immune alle difficoltà del momento. Si poneva quindi con urgenza il problema di arginare una potenziale fuga di manodopera qualificata, una risorsa preziosa per il futuro del settore. Le imprese artigiane, sprovviste della possibilità di ricorrere agli ammortizzatori sociali come la cassa integrazione, erano esortate dalle associazioni di categoria a resistere e ad affrontare le difficoltà con resilienza, in attesa di una ripresa del mercato: ognuno cercava di farsi un menu su misura.

    Guardando al futuro, si nutrivano speranze in un rinnovamento del settore, un vero e proprio “renaissance” guidato dall’innovazione tecnologica. Si prevedeva che le nuove tecnologie avrebbero apportato cambiamenti profondi e trasformativi nei processi produttivi, nei modelli di business e nella formazione professionale, aprendo nuove prospettive di crescita e competitività per l’oreficeria valenzana. Un investimento strategico nell’innovazione, combinato con un supporto concreto alle imprese, rappresentava, forse, la chiave per preservare e rilanciare un patrimonio storico e culturale di inestimabile valore. La sfida era quindi quella di trasformare le difficoltà in opportunità, costruendo un futuro solido e prospero per l’attività orafa locale.

    Il settore stava attraversando un periodo di profonda trasformazione e innegabile difficoltà. Le statistiche parlavano chiaro: si registrava un calo significativo delle esportazioni, con un impatto particolarmente segnato sui mercati americano e mediorientale. Le cause erano molteplici e interconnesse. Da un lato, fattori economici globali, come la fluttuazione del dollaro e la contrazione dei petrodollari, erodevano il potere d’acquisto dei consumatori in queste aree. Dall’altro, la concorrenza internazionale si faceva sempre più agguerrita, con nuovi player che emergevano offrendo prodotti a prezzi competitivi e con design innovativi. A complicare ulteriormente il quadro, si assisteva a un fenomeno di delocalizzazione, con un numero crescente di imprese orafe valenzane che sceglievano di trasferire la propria produzione in paesi limitrofi, come Mede e San Salvatore Monferrato, attratte da costi del lavoro inferiori e da agevolazioni fiscali. Questa tendenza, seppur comprensibile dal punto di vista economico, contribuiva a depauperare il tessuto produttivo locale e a erodere il know-how tradizionale.

    Gli orafi valenzani, un tempo animati da una solida fiducia nelle proprie capacità, sembravano aver perso quella sicurezza che li contraddistingueva. L’arditezza che alimentava la loro creatività e la loro intraprendenza, supportata da una rinomata bravura produttiva e da una domanda di mercato in costante crescita, appariva smorzata. Questa sicurezza, a ben vedere, poggiava più su dinamiche di mercato favorevoli che su reali e strutturate capacità imprenditoriali e organizzative. In questi anni molti orafi, arroccati in una presunzione di superiorità e scambiando le proprie idee con la realtà, continuavano a considerare la produzione altrui come scadente e derivativa, convinti che i consumatori, prima o poi, sarebbero tornati ad acquistare i loro prodotti. Questa convinzione, radicata in una visione del mercato ormai superata, rischiava di rivelarsi fatale.

    Il futuro si prospettava incerto e denso di sfide con un senso diffuso di declino. Lo spettro della chiusura di molte aziende, accompagnato da sospensioni e licenziamenti di personale altamente qualificato, si faceva sempre più concreto. La necessità di un cambio di mentalità, di un’apertura all’innovazione e alla collaborazione, e di una maggiore attenzione alle esigenze del mercato globale era ormai improrogabile per evitare un declino irreversibile di un settore che aveva fatto la storia del luogo. Urgeva, quindi, un ripensamento strategico, un investimento in nuove tecnologie e competenze, e un’azione coordinata tra imprese, istituzioni e territorio per rilanciare l’oreficeria valenzana e preservarne il patrimonio di conoscenze e tradizioni.

    Il tessuto imprenditoriale del settore orafo si presentava con caratteristiche uniche e complesse, frutto di una storia radicata nel territorio e di dinamiche economiche in continua evoluzione. Un dato significativo rivelava che il 60% degli imprenditori orafi proveniva da un background operaio, a testimonianza di una tradizione artigianale tramandata di generazione in generazione e di una mobilità sociale resa possibile dal dinamismo del settore. Inoltre, il 70% delle imprese orafe manteneva una struttura familiare, un modello gestionale che privilegiava la continuità, la cura del dettaglio e un forte legame con il territorio.

    La nascita di quasi la metà di queste aziende risaliva agli anni Sessanta, un periodo di grande fermento economico e di sviluppo industriale. Tuttavia, questo decennio Ottanta era anche caratterizzato da un’elevata natalità e mortalità delle imprese, sintomo di un mercato competitivo e in rapida trasformazione. L’incapacità di molti imprenditori di adattarsi alle nuove sfide e di muoversi con competenza in un contesto sempre più complesso generava uno stato di incertezza crescente. Un aspetto particolarmente allarmante e doloroso era rappresentato dalla crescente diffusione del fenomeno del «bidone», ovvero la mancata riscossione di assegni o cambiali accettati come pagamento, basati su crediti fiduciari che si rivelavano inesigibili. Questo problema, sintomo di una crisi di liquidità e di una crescente difficoltà nel recupero crediti, metteva a rischio la solidità finanziaria delle imprese valenzane, soprattutto quelle di piccole e medie dimensioni. L’aumento dei mancati pagamenti erodeva i margini di profitto e creava un circolo vizioso che sovente portava alla chiusura di attività altrimenti vitali.

    Ancora più drammatica e complessa era la situazione nel compartimento di pelle, cuoio e calzature, un settore che storicamente aveva rappresentato qui un’eccellenza del Made in Italy. Questo settore calzaturiero era stato colpito ripetutamente da una crisi profonda, con motivazioni antiche e recenti, e sembrava ormai condannato alla marginalità. Le pochissime aziende locali rimaste erano le superstiti di una spietata selezione quasi naturale, che aveva decimato il tessuto produttivo e compromesso il futuro di un intero comparto. La situazione era così grave da far pensare ad un’eterogenesi dei fini, ovvero ad un esito inatteso e, forse, da alcuni persino auspicabile.

    La contrazione del settore poteva, paradossalmente, favorire una concentrazione delle risorse e un rinnovamento delle strategie, anche se il costo sociale ed economico era elevatissimo. I costi di produzione erano in costante aumento, principalmente a causa dell’incremento dei prezzi delle materie prime, provenienti prevalentemente dall’estero e pagate in dollari, e del costo della manodopera, che incideva per quasi il 50% sul costo totale del prodotto. L’oscillazione dei tassi di cambio e la volatilità dei mercati internazionali rendevano difficile la pianificazione e la gestione dei costi, mettendo a dura prova la competitività di queste aziende. Verso la fine degli anni ottanta, la situazione si complicava ulteriormente con l’emergere di nuovi concorrenti provenienti da paesi sottosviluppati, capaci di offrire sul mercato prodotti a prezzi talmente bassi da rendere impossibile la competizione. La necessità di innovare, investire in ricerca e sviluppo e differenziarsi attraverso la qualità e il design diventava quindi una questione di sopravvivenza.

    La persistenza di alcune aziende calzaturiere a Valenza, pur rappresentando una tenace eccezione, si confrontava anche con un’altra sfida apparentemente insormontabile: il reclutamento di manodopera. La difficoltà nel trovare nuovi lavoratori calzaturieri si era trasformata in una vera e propria crisi locale per il settore. L’attrattività di questa professione, un tempo pilastro dell’economia di Valenza, era drammaticamente crollata. In questi anni si manifestavano le ultime mosse prima di un finale letale: l’opzione preferita per molti imprenditori, ostracizzati e mai sovvenzionati.

    Parallelamente a questa difficoltà nel settore calzaturiero, l’industria orafa valenzana cercava nuove vie per promuovere la sua eccellenza. La Mostra del Gioiello Valenzano, nata nel 1978 su iniziativa dell’AOV (Associazione Orafi Valenzana), si evolveva per rispondere alle esigenze di un numero crescente di espositori e per capitalizzare le opportunità commerciali. L’edizione dell’11-15 ottobre 1980 segnava un punto di svolta, con l’installazione di tre padiglioni a tendoni tensostatici in piazza Macchiavelli, ampliando significativamente lo spazio espositivo fino a quasi 6.000 metri quadrati. L’anno successivo, nel 1981, l’evento cresceva ulteriormente, trasferendosi in piazza Giovanni XXIII e ospitando quattro padiglioni. Nonostante questa espansione fisica, le caratteristiche fondamentali della manifestazione rimanevano pressoché invariate: l’accesso era riservato esclusivamente agli operatori del settore, mantenendo un focus prettamente professionale e commerciale.

    Tuttavia, per molti operatori valenzani, la Mostra del Gioiello si rivelava un’esperienza ambivalente, per alcuni, a caccia di motivi per creare ostilità, nientemeno che un raggiro. Pur riconoscendone il potenziale, la percepivano come un miraggio che spesso lasciava una sensazione di delusione e insoddisfazione. La consideravano uno strumento tra i tanti, la cui utilità era limitata in un contesto aziendale, come quello valenzano, caratterizzato da strutture piccole e non sempre adeguatamente attrezzate per determinati tipi di commercializzazione e strategie di marketing aggressive. Il successo della mostra, quindi, non si traduceva automaticamente in benefici tangibili per tutte le aziende, evidenziando le disomogeneità e le sfide interne all’industria orafa valenzana. Si faceva strada la necessità di una riflessione più approfondita sulle strategie di commercializzazione e sulle esigenze specifiche delle aziende locali, per massimizzare il potenziale della mostra e trasformarla in un motore di crescita più inclusivo ed efficace per l’intero distretto orafo.

    Il settore terziario di Valenza, con una quota attestata al 30%, evidenziava una significativa disparità rispetto alla media provinciale e si posizionava al di sotto degli standard riscontrabili in città di dimensioni comparabili. Questa carenza creava una dipendenza marcata dal capoluogo provinciale per l’approvvigionamento di servizi di varia natura, dai più basilari ai più specializzati.

    A livello locale, si percepiva una certa rassegnazione, un velo di malinconia avvolgeva le piccole botteghe tradizionali, le quali sembravano inesorabilmente destinate a scomparire, relegate a un futuro fatto di ricordi sbiaditi e nostalgici album fotografici. La situazione era ulteriormente complicata dal fatto che i lavoratori pendolari, pur percependo reddito a Valenza, contribuivano in minima parte all’economia locale. Il denaro guadagnato in città non veniva reinvestito nel tessuto commerciale valenzano, alimentando così un circolo vizioso di stagnazione.

    Già alla fine degli anni ’80, si assisteva a un cambiamento radicale nelle abitudini di consumo, con una preponderanza degli acquisti alimentari (circa l’80%) effettuati nei supermercati, a discapito dei piccoli negozi locali. Tuttavia, la forte concentrazione della domanda di gioielli e prodotti di oreficeria aveva innescato un fenomeno peculiare: la proliferazione in città di negozi specializzati nel settore. Questa tendenza può essere interpretata come un sintomo di una sorta di «febbre dell’oro», una trasformazione profonda del sistema distributivo tradizionale che cercava nuove vie di sbocco compensative nella vendita diretta al consumatore finale.

    I negozi di preziosi, spinti da questa crescente domanda, hanno letteralmente invaso il centro cittadino, soppiantando attività commerciali più tradizionali come salumerie, panetterie e negozi di frutta e verdura. Gli esercenti di queste attività, spesso incentivati da generosa buonuscita, hanno ceduto il passo a questa nuova ondata commerciale. Negli anni che seguono il numero di negozi di gioielleria si avvicinerà al centinaio, saturando ulteriormente il mercato e modificando radicalmente l’identità commerciale della città. A contribuire a questa espansione contribuirono in modo significativo l’afflusso di non residenti che, durante il fine settimana, affollavano le vie di Valenza alla ricerca di occasioni e tesori a prezzi competitivi, trasformando la città in una sorta di mercato del lusso temporaneo. Questa affluenza turistica creava indubbiamente opportunità economiche, ma sollevava anche interrogativi sulla sostenibilità a lungo termine di un’economia così fortemente dipendente da un unico settore.

    Lungi dall’immagine di un’oasi di bellezza e ordine che ci si aspetterebbe da una città ambiziosa, i visitatori di Valenza si trovavano, purtroppo, all’ingresso della città circondati da una vegetazione incolta e spontanea, più consone a un paesaggio bucolico e rurale che all’ambiente curato di una presunta «città gioiello».

    Gli anni ’80 sono stati anche un periodo di pianificazione intensa e proiettata verso il futuro, si delineano chiaramente le ambizioni di crescita e sviluppo della città. Oltre alla definizione e all’attuazione dei piani per le tre aree produttive distinte – la D2 dedicata all’oreficeria, la D3 all’artigianato e la D4 all’industria – emergono due Piani di Edilizia Economica e Popolare (PEEP) di notevole portata. Il primo, esteso su una superficie di 51.800 metri quadrati, trova la sua collocazione prevista nella regione Faiteria, un’area designata per accogliere nuove abitazioni a costi accessibili. Il secondo PEEP, di dimensioni ben maggiori con i suoi 304.000 metri quadrati, ambisce a trasformarsi in una vera e propria entità urbana autonoma, un piccolo centro satellite ai margini occidentali della città, nella regione di Fogliabella. Questi progetti, con la loro visione di autosufficienza e integrazione, hanno rappresentato una scommessa audace sul futuro demografico e sociale di Valenza.

    Nella zona di edilizia popolare pianificata nella regione Faiteria, si è dato avvio a un progetto concreto che prevedeva, nell’arco di un triennio, la realizzazione di circa la metà degli 80.000 metri cubi previsti. Queste nuove costruzioni erano pensate per ospitare circa 800 persone, offrendo loro non solo un tetto sopra la testa, ma anche una gamma completa di servizi essenziali e ampi spazi verdi destinati al tempo libero e alla socializzazione. La complessità e l’impegno richiesto per portare a termine un’impresa di tale portata, in un contesto di risorse potenzialmente limitate, ci suggeriscono che «più che fegato ci andava della follia», come a dire che la determinazione e la visione superavano la prudenza.

    Tuttavia, in un quadro di pianificazione ambiziosa e di promesse di sviluppo, si insinuava un dilemma di ordine sanitario che gettava un’ombra sul futuro di Valenza. La proposta di chiusura dell’ospedale cittadino, motivata dalla sua presunta non necessità (praticamente un chiodo fisso, appannaggio della Regione), in quanto registrava una media giornaliera di soli 124 pazienti con una degenza media di 8 giorni, sollevava serie preoccupazioni tra la popolazione. La chiusura di un presidio sanitario così importante poteva avere conseguenze negative sull’accesso alle cure mediche per i residenti, soprattutto per le fasce più vulnerabili della società, e mettere a rischio la qualità della vita in città.

    Valenza città si mise in subbuglio e fece baluardo contro il provvedimento, si raccolsero migliaia di firme, si tennero numerose assemblee, scritte, marce, ecc. È stata una via crucis che proseguirà sino a tempi più recenti, senza successo.

    Nei primi anni Novanta, angoscia e speranza siederanno insieme, Valenza risulterà cambiata, e non poco. Un po’ per colpa sua un po’ per colpa altrui. Dicevano i latini: “Feci quod potui, faciant meliora sequentes”. Ho fatto ciò che ho potuto, facciano meglio quelli che verranno dopo.

    Nasce il nuovo Valentia

    Nel 1983, dopo un’attesa carica di aspettative e promesse, il dancing Valentia, completamente rinnovato e sfolgorante di nuova luce, riapriva i battenti. L’inaugurazione del 24 settembre 1983 fu un evento memorabile per Valenza, una città che aveva imparato ad amare e a identificarsi con questo locale storico.

    Proviamo a riportare alla memoria alcuni frammenti, istantanee preziose dei primi venticinque anni di vita del Valentia (nato nel 1958), un periodo in cui il locale ha rappresentato un tassello fondamentale nel tessuto sociale e culturale valenzano. Tra le innumerevoli storie che le sue mura avrebbero potuto raccontare, selezioniamo alcuni episodi particolarmente significativi, piccoli gioielli incastonati nella memoria collettiva.

    Tra i primi artisti ad esibirsi sul palco del Valentia, spicca il nome di Glauco Masetti, un jazzista di fama che giunse a Valenza in occasione del 25 luglio, giorno dedicato al santo patrono. La sua presenza segnò l’inizio di un proficuo scambio con l’ambiente musicale milanese, un rapporto che si consolidò ulteriormente grazie alla collaborazione con figure come Ginetto Prandi e Giulio Libano, veri e propri ambasciatori della musica. Non molto tempo dopo, fu la volta di Buscaglione, un artista già affermato, e, a seguire, l’arrivo di una giovanissima Mina. La futura icona della musica italiana, all’epoca appena diciottenne, si presentò al Valentia con una timidezza quasi disarmante. In segno di riconoscenza per la sua performance, le fu donato un anellino, un piccolo omaggio del valore di poche decine di migliaia di lire. Era l’anno del suo debutto, un trampolino di lancio verso un successo planetario. Solo pochi mesi dopo, infatti, Mina riceveva offerte di ingaggio che rasentavano l’incredibile, testimonianza del suo talento innegabile e della sua rapida ascesa.

    A proposito di Fred Buscaglione, c’è un aneddoto raccontato a lungo con un sorriso. Si narrò che al celebre musicista fossero serviti, uno dopo l’altro, bicchierini di whisky debitamente annacquati, un espediente forse volto a moderarne i consumi. Buscaglione, ignaro o forse fin troppo consenziente, beveva con gusto ogni sorso, riponendo poi il bicchiere vuoto con un gesto quasi rituale nel taschino della giacca, forse come trofeo di una serata all’insegna della musica e del divertimento.

    Il Valentia, locale pulsante di vita e musica, ha visto susseguirsi negli anni innumerevoli artisti, diventando un vero e proprio crocevia di talenti e aneddoti indimenticabili. Tra le serate più memorabili, spicca l’arrivo, nel lontano 1960, di un collettivo artistico di prim’ordine, un vero e proprio “complesso” composto da figure iconiche come Jannacci, Maria Monti, Gaber e altri luminari della scena musicale italiana. Il Valentia aveva scommesso su di loro, offrendo loro un ingaggio per un intero mese, un periodo di esibizioni che prometteva scintille. L’occasione era particolarmente speciale, coincidendo con le festività di Capodanno. Le celebrazioni, come spesso accade, presero una piega inaspettata. La notte di San Silvestro fu segnata da festeggiamenti vivaci e, diciamolo pure, da un consumo generoso di bevande. Quando arrivò il momento di salire sul palco, gli artisti si trovavano in uno stato di euforica ebbrezza, rendendo la coordinazione musicale tra le diverse voci un’impresa pressoché impossibile. Il tentativo di unire le loro performance si rivelò un caos armonico, un’esplosione di suoni scoordinati. Nonostante l’imprevisto, la serata non degenerò in drammi. Con una certa dose di filosofia e una risata, i musicisti rinunciarono all’esibizione e fecero ritorno alle loro dimore, lasciando il pubblico con un ricordo sicuramente originale di quel Capodanno al Valentia.

    Negli anni successivi, il palcoscenico del Valentia continuò ad ospitare artisti emergenti, destinati a diventare nomi di spicco nel panorama musicale italiano. Dino Crocco e i “Quattro Assi” furono tra questi, contribuendo a consolidare la fama del locale come trampolino di lancio per giovani talenti. Si può dire che tutti i grandi nomi della musica italiana, a un certo punto della loro carriera, abbiano calcato quel palcoscenico, con tre eccezioni notevoli. Nonostante i ripetuti tentativi, il Valentia, fino ad allora, non era riuscito a convincere Modugno, la Vanoni e Patty Pravo ad esibirsi a Valenza.

    Un capitolo a parte merita la serata di Milva. L’attesa per la sua performance era palpabile e via Melgara era letteralmente invasa da una folla trepidante. L’entusiasmo del pubblico era tale che la cantante fu sollevata di peso per poter raggiungere l’ingresso del locale, un gesto spontaneo che testimoniava l’amore e l’ammirazione che il pubblico nutriva per lei. Ma la serata riservava un’ulteriore sorpresa: Milva si era sposata il giorno precedente e il marito, presente tra il pubblico, la accompagnava con una tale discrezione da passare quasi inosservato, aggiungendo un tocco di romanticismo e mistero all’evento.

    Infine, un ricordo agrodolce è legato a Rita Pavone. L’artista, per qualche motivo, nutriva delle riserve a esibirsi al Valentia e fu necessario un intervento persuasivo per convincerla a salire sul palco. Alla fine, Rita Pavone accettò l’invito, regalando al pubblico una performance indimenticabile, ma la sua iniziale esitazione rimane una nota curiosa nella storia del Valentia, un piccolo dettaglio che contribuisce a rendere ancora più affascinante la narrazione di questo luogo ricco di storia e di musica.

    Un periodo eccezionale venne poi con Danzi e i concorsi di voci d’oro. In anni più vicini agli anni Ottanta il clima non cambiò: Baglioni, Dalla, i Pooh, Renato Zero, De Gregori… tutti successi. Addirittura Renato Zero fece furore in una serata in cui era presente il pubblico del liscio. Baglioni suonò con il pianoforte tenuto sollevato dai suoi fans.

    Dopo la ristrutturazione del 1983 il Valentia riprese la sua strada con le grandi orchestre del liscio, con la discoteca e con il suo numerosissimo e affezionato pubblico per essere infine nel 2005, con impressionante sfoggio di  cinismo, venduto a un’impresa di costruzione e al suo posto costruito un palazzo.

    È stato una meraviglia di quel tempo, simbolo di una città spensierata in continuo progresso, ricordata ancora da molti con nostalgia.

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