• Network logo
  • Ultima Ora
  • Cronaca
  • Economia
  • Lavoro
  • Politica
  • Blog
  • Newsletter
  • Società
  • Cultura
  • Spettacoli
  • Farmacie
  • Sport
    • Sport
    • Sport Live
    • Alessandria Calcio
    • Derthona Basket
  • Animali
  • Necrologie
  • Farmacie
  • Elezioni
  • Abbonamenti
  • Edicola Digitale
  • Top Tag
    • Staria e storie di Valenza
    • Il deposito di scorie nucleari
    • Dossier Spinetta
    • Il caso Ginepro
    • Il processo Eternit Bis
    • Vite in cella
    • Venticinquesimo Minuto
    • L’ospedale siamo noi
    • I castelli dell’Acquese
    • Arte e Memoria
  • Podcast
    • Eco Sentieri
    • Che cosa direbbe Freud?
  • DOCUFILM
    • Alessandria: tra industrie a rischio e pericolo inquinamento
    • Dossier Spinetta, storia di un inquinamento
    • Le vecchie nuove droghe
    • 1994, la tragedia dell’alluvione: guarda il docufilm
    • In direzione contraria, la strage di Quargnento
    • Il ciliegio di Rinaldo
  • Network
    • Il Piccolo
    • Alessandria
    • Novi Ligure
    • Acqui Terme
    • Casale
    • Ovada
    • Tortona
    • Valenza
      • micro circle logo
      • coogle_play
      • app_store
    Site Logo
    Search
    Leggi l'ultima edizione Read latest edition Abbonati Abbonati
    • Lavoro
    • Cronaca
    • Sport
    • Alessandria Calcio
    • Newsletter
    • Società
    • Necrologie
      • Lavoro
      • Cronaca
      • Sport
      • Alessandria Calcio
      • Newsletter
      • Società
      • Necrologie
    Sinistra,
    Blog, Cultura
    Pier Giorgio Maggiora  
    15 Giugno 2025
    ore
    08:23 Logo Newsguard
    Il saggio

    Sinistra, socialismo e movimento operaio a Valenza

    L'approfondimento del professor Maggiora

    VALENZA – Gli ultimi decenni del XIX secolo furono testimoni di una profonda trasformazione sociale a Valenza, plasmata dall’incessante predicazione di idee radicali, umanitarie e socialiste. Questa ondata ideologica, propagata da ferventi declamatori e attraverso la circolazione di scritti sovversivi, penetrò in maniera significativa in diversi strati della popolazione valenzana, risvegliando una coscienza critica nei confronti delle disparità e delle ingiustizie sociali.

    L’eredità della Rivoluzione Francese, filtrata attraverso l’esperienza della Repubblica Cisalpina (1798-1814), del periodo del Direttorio-Consolato e dell’epopea napoleonica, aveva attecchito profondamente nel terreno fertile di Valenza. Le idee di libertà, uguaglianza e fraternità avevano nutrito i valorosi e i modernisti locali, forgiando una coscienza civile incline alla lotta per i diritti.

    Il terreno fertile per queste nuove opinioni era stato in realtà preparato già nel 1845, con la fondazione della «Società di Mutuo Soccorso fra Artisti e Operai», un’organizzazione pionieristica che mirava a fornire sostegno reciproco ai lavoratori in caso di malattia, infortunio o difficoltà economiche. Questa società non solo rappresentava un baluardo di solidarietà, ma anche un luogo di associazione e discussione politica, dove i lavoratori potevano confrontarsi sulle proprie condizioni di vita e avanzare proposte per un futuro più equo. La sua partecipazione al 1° Congresso Operaio in Asti nel 1853, un evento cruciale nella storia del movimento operaio, testimoniava l’impegno precoce di Valenza nella lotta per i diritti dei lavoratori.

    Nel 1864, il Consiglio Comunale, espressione degli interessi delle classi dominanti, emanò un divieto di suonare «l’ora di notte», un segnale acustico che alle dieci di sera avvertiva i cittadini di ritirarsi nelle proprie abitazioni. Questo provvedimento, apparentemente innocuo, veniva percepito da molti come un tentativo di limitare la libertà di movimento e di controllo sociale, generando malcontento e risentimento.

    L’episodio più eclatante di questo clima di tensione avvenne nel 1866, in occasione della nomina del deputato di Valenza. La competizione elettorale vedeva contrapposti il nobile monarchico Figarolo di Gropello, espressione del conservatorismo aristocratico, e Piero Cantoni, un radicale fautore di riforme sociali e politiche. In un’epoca in cui il diritto di voto era ancora riservato a una ristretta élite conservatrice e tradizionalista, il popolo valenzano, escluso dalla partecipazione democratica, decise di manifestare la propria contrarietà al metodo antidemocratico con una dimostrazione di forza. Una folla numerosa si radunò e iniziò un lancio di sassi contro gli edifici pubblici e le residenze dei notabili, un gesto di ribellione che scosse profondamente le autorità. L’agitazione fu tale da richiedere l’intervento dei carabinieri e dell’esercito per domare la rivolta e ristabilire l’ordine.

    Il primo gennaio del 1888, la città di Valenza vedeva l’apparizione del suo primo giornale locale, “Il Gazzettino di Valenza“. La pubblicazione era stata ispirata e diretta da Giusto Calvi, uno studioso locale attento alle questioni sociali, alle disuguaglianze del popolo e ai problemi del proletariato. Calvi, ancora affiliato al gruppo operaio e repubblicano, sarebbe in seguito diventato una figura di spicco del socialismo italiano. Tornato a Valenza dopo una parentesi argentina, si era poi rapidamente riavvicinato con i vecchi amici del Gazzettino, costituendo attorno a sé un nucleo di rilevanti protagonisti della cultura valenzana: Compiano, Passoni, Gaudino, Monelli, Oliva. Questo gruppo, dopo la fondazione del partito al congresso di Genova nell’agosto 1892, si presentò come un locale cartello socialista. Ben presto questi socialisti valenzani, guidati da Calvi, pubblicarono il primo numero di un nuovo periodico, “L’Avanti-Gazzettino di Valenza”.

    A fine Ottocento, Il panorama economico di Valenza era in rapida evoluzione. Alle tradizionali filande e fornaci si affiancarono nuove industrie, in particolare nei settori orafo (presente già da qualche decennio) e calzaturiero. Queste nuove attività produttive crearono opportunità di lavoro e attrassero lavoratori da altre zone, contribuendo a un aumento della popolazione e a una maggiore diversificazione sociale.

    L’interazione con uomini provenienti da ambienti diversi, portatori di nuove idee e di esperienze differenti, favorì la diffusione delle opinioni progressiste e di emancipazione dei lavoratori. Le aziende divennero non solo luoghi di produzione, ma anche siti di socializzazione e di dibattito, dove i lavoratori potevano confrontarsi sulle proprie condizioni di lavoro, discutere di politica e organizzarsi per rivendicare i propri diritti. In questo contesto dinamico e in fermento, Valenza si trasformò in un vero e proprio laboratorio sociale, un crogiolo di idee e di trasformazioni che avrebbero segnato profondamente la sua storia futura. La coscienza di classe si rafforzava, alimentando la lotta per un futuro più giusto e più umano.

    Negli anni cruciali del 1898, del 1901 e del 1905, le richieste di una giornata lavorativa più umana, limitata a dodici e poi a dieci ore, e di un adeguato aumento salariale, accesero la miccia della protesta. Il popolo di Valenza si mobilitò, organizzando scioperi che dimostrarono la sua determinazione e la sua crescente consapevolezza dei propri diritti.

    Nonostante le repressioni, il fermento sociale e politico continuò a crescere. A Valenza, si affermarono con forza diverse realtà associative: il circolo socialista, punto di riferimento per chi credeva in un futuro di giustizia sociale; il circolo repubblicano, noto anche come dei Calottini, animato da ideali patriottici e democratici; il circolo delle donne, embrione di un movimento femminista che rivendicava l’emancipazione femminile; e, infine, le leghe dei contadini, dei muratori e dei carrettieri, espressioni della volontà dei lavoratori di organizzarsi per difendere i propri interessi.

    Su queste solide basi, sorse e si sviluppò il sindacato della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), con la sua Camera del Lavoro, che divenne un punto di riferimento essenziale per la tutela dei diritti dei lavoratori e per la promozione di una società più giusta e solidale. Questo tessuto associativo, radicato nel territorio e animato da ideali progressisti, costituì una potente forza di cambiamento che sfidò l’autorità e contribuì a plasmare la storia di Valenza.

    Quindi, nel cuore del primo Novecento, Valenza si rivelava un vibrante focolaio di fermento politico e sociale, testimoniando un’adesione crescente agli ideali socialisti.

    Già nel lontano 1905, in un’epoca in cui il suffragio elettorale era ben lontano dall’universalità odierna, l’elezione di Giusto Calvi, esponente del Partito Socialista, nel collegio di Valenza, non destava particolare sorpresa, bensì si poneva come un presagio di cambiamenti imminenti.

    Un segnale ancora più eloquente giunse nel 1910, quando la lista socialista, fino a quel momento relegata al ruolo di minoranza con l’accanito obiettivo di ostacolare chi governava, conseguì una vittoria trionfale alle elezioni comunali, segnando una svolta storica per la città.

    A distanza di un decennio, nel 1920, Valenza si ergeva poi a baluardo del socialismo locale, forte di una rappresentanza politica di spicco. Ben due deputati socialisti, Tassinari, un uomo proveniente dal mondo contadino, e Demichelis, un abile artigiano orafo, sedevano tra gli scranni del Parlamento. A guidare l’amministrazione comunale vi era il sindaco Marchese, anch’egli legato al mondo dell’oreficeria in quanto fabbricante, succeduto al sindaco Oliva.

    La Camera del Lavoro, condotta dal segretario Barge, che aveva ereditato il ruolo dal deputato De Giovanni, rappresentava un punto di riferimento essenziale per i lavoratori.

    Un Consiglio delle Leghe coordinava le attività sindacali, mentre la cooperativa della Società Generale di Mutuo Soccorso, con i suoi tre spacci di generi alimentari, un forno, una panetteria, una farmacia e persino un cinema, offriva servizi essenziali alla comunità.

    La forza del partito socialista si manifestava anche attraverso una sezione locale particolarmente attiva, guidata dall’indefesso segretario Morosetti, e una vivace sezione giovanile socialista, animata dal segretario Visconti. Un gruppo dedicato all’infanzia, curato con dedizione dalle donne del partito, testimoniava l’attenzione al futuro della comunità. A simboleggiare lo spirito combattivo e l’organizzazione del movimento, vi era un reparto di ciclisti rossi, pronti a mobilitarsi per le cause del socialismo. Un circolo culturale promuoveva il dibattito e la diffusione delle idee, mentre una cooperativa calzature e una cooperativa orafa offrivano opportunità di lavoro e di crescita economica ai cittadini.

    L’asilo comunale, gestito da personale laico, garantiva un’educazione accessibile a tutti i bambini. La vivacità del panorama informativo era garantita dalla pubblicazione di tre giornali locali, espressione delle diverse anime politiche della città: il settimanale cattolico «Corriere del Collegio di Valenza», il giornale liberale «Aurora Liberale» e il settimanale socialista «La Scure», ciascuno portavoce di differenti visioni del mondo e della società.

    Tuttavia, nel 1920, l’idillio apparente iniziò a incrinarsi. La crisi economica del primo dopoguerra, con le sue conseguenze di disoccupazione, inflazione e tensioni sociali, entrava nella sua fase più acuta, mettendo a dura prova la solidità del tessuto sociale e politico valenzano e preannunciando tempi difficili per il movimento socialista.

    Nel triennio 1918-1921, con gli eccessi di una politica tossica, l’Italia fu teatro di un’intensificazione delle lotte sociali e politiche. Gli scioperi, già frequenti, diventarono un fenomeno pervasivo, non limitandosi a rivendicazioni salariali o di categoria. Gli scioperi di solidarietà, estesi a diverse categorie di lavoratori nell’ambito delle città industrializzate, e gli scioperi politici, mirati a esercitare pressione sul governo e sulle istituzioni, si susseguivano con ritmo incalzante, rappresentando un sintomo evidente del maturare di una profonda crisi rivoluzionaria all’interno della società italiana. La classe operaia, animata da una crescente consapevolezza del proprio ruolo e del proprio potere, si dimostrava compatta, forte e risoluta.

    Nonostante le ingenuità ideologiche che ancora la caratterizzavano, frutto di una certa immaturità politica e di una difficoltà nell’abbracciare le necessarie diversificazioni e sfumature strategiche, essa appariva comunque in procinto di compiere il «gran salto» verso una trasformazione radicale dell’ordine sociale. Il fermento rivoluzionario si palpava nell’aria, alimentato dalla disillusione e dalla frustrazione generate dalla situazione post-bellica.

    La divisione all’interno del Partito Socialista Italiano si accentuò, dando origine a correnti e frazioni in competizione tra loro, alimentando personalismi e lotte intestine che, in seguito, avrebbero finito per toccare tutti gli strati del partito, minandone l’unità e l’efficacia politica. Anche a Valenza il clima politico del primo dopoguerra era caratterizzato da una profonda e irrisolvibile frattura all’interno del Partito Socialista Italiano. Questa frattura non si manifestava come una semplice divergenza di opinioni, bensì come una vera e propria coesistenza di frazioni ostili, che sovente perseguivano obiettivi e finalità opposte.

    Il dibattito infuocato che precedette la famosa scissione socialista di Livorno, con le sue implicazioni ideologiche e strategiche, si perse spesso in un labirinto di personalismi e superficialità. Nella loro essenza e portata, le diverse posizioni in campo al Congresso di Livorno non erano state comprese né dai dirigenti della sezione locale valenzana, ancorati a dinamiche di potere e rivalità interne, né tantomeno dai militanti di base, la cui percezione era spesso offuscata dalla propaganda e dalla mancanza di una reale formazione politica. Di conseguenza, l’adesione all’una o all’altra tesi, lungi dall’essere il frutto di un esame meditato e consapevole delle conseguenze, veniva a essere determinata più dalla simpatia personale per alcuni uomini, dalla rinomanza di dirigenti nazionali visti come figure carismatiche, o, più tristemente, dalla superficiale sentimentalità imperante nel partito, una romanticheria che si nutriva di slogan e promesse spesso vuote.

    La divisione di Livorno, che segnò una frattura profonda nel movimento socialista italiano, fu, in effetti, la conseguenza paradossale della volontà della frazione massimalista di conservare, all’interno del partito, quella piccola ma influentissima ala riformista, che, in un’epoca di crescente radicalizzazione, postulava con ostinazione: «riforme da ottenersi con i normali mezzi, attraverso gli istituti di tipo tradizionale». Una posizione che suonava anacronistica e quasi provocatoria nel pieno di una crisi rivoluzionaria che da almeno tre anni scuoteva dalle fondamenta la società borghese in Italia, mettendo in discussione l’intero sistema economico e politico.

    La frazione comunista proponeva senza mezzi termini «l’organizzazione del Partito socialista secondo i principi marxisti-leninisti», ponendo l’accento su «unità ideologiche, centralismo democratico, e la concezione del partito come strumento di lotta dell’avanguardia organizzata della classe operaia». Questa visione, che si ispirava direttamente all’esperienza bolscevica in Russia, si poneva in antitesi frontale con le posizioni riformiste e massimaliste, rendendo la scissione un esito quasi inevitabile. La contrapposizione tra una via riformista, ancorata alle istituzioni esistenti, e una via rivoluzionaria, volta alla radicale trasformazione della società, si rivelò insormontabile, aprendo una ferita che avrebbe segnato profondamente la storia del movimento operaio italiano.

    Di fronte all’ostruzionismo massimalista e alla mancanza di una prospettiva rivoluzionaria concreta all’interno del PSI, i rivoluzionari, guidati da Amadeo Bordiga, decisero di abbandonare il XVII Congresso del partito, tenutosi a Livorno nel gennaio del 1921. I delegati comunisti si riunirono quindi nella sala del teatro San Marco e diedero vita al Partito Comunista d’Italia (PCd’I), sancendo la definitiva rottura con il Partito Socialista. L’errore strategico dei massimalisti, consistente nel voler mantenere a tutti i costi un’unità di facciata, fu riconosciuto solo tre anni più tardi. L’onda d’urto generata dalla nascita del PCd’I e dalla mozione comunista, si propagò anche nelle sezioni locali del Partito Socialista.

    A Valenza, dopo il XVII Congresso, alcuni compagni, influenzati dalle posizioni comuniste e raggiunto così un perfetto disaccordo, decisero di abbandonare la Sezione socialista frustando tutti. Tra questi, spiccavano i nomi di Florindo Panzarasa, Ercole Morando e del cav. Scalcabarozzi (il quale in seguito sarebbe diventato un esponente socialdemocratico).

    Questi fuoriusciti fondarono in via Magenta il «Circolo Comunista», un focolaio di attività politica e di proselitismo rivoluzionario. In breve tempo, il Circolo Comunista di Valenza attirò un numero considerevole di aderenti, stimabile tra i quaranta e i sessanta membri, provenienti quasi integralmente dalle fila del Partito Socialista.

    I primi dirigenti del circolo, tra cui Morando, insieme ad altri militanti come Casolati, Vaccario e Accatino, si tesserarono presso la sezione comunista di Alessandria, consolidando il legame con la struttura provinciale del neonato Partito Comunista d’Italia. Questo fervore rivoluzionario, seppur localizzato, testimoniava la profonda crisi che attraversava il Partito Socialista e l’attrattiva esercitata dalle nuove utopie comuniste su una parte significativa della base militante locale.

    Mentre l’attesa per la regolarizzazione della posizione degli aderenti e dei frequentatori del circolo comunista si protraeva, un evento brutale sconvolse la vita della comunità valenzana. Il circolo, fulcro delle attività politiche e sociali dell’estrema sinistra locale, fu improvvisamente assaltato e dato alle fiamme da squadracce fasciste provenienti dai paesi limitrofi. Questi gruppi paramilitari, animati da un fervore ideologico violento e da una determinazione spietata, irruppero in città con l’intento di sopprimere ogni forma di dissenso e di instaurare un regime di terrore.

    Il clima fu esacerbato dall’uccisione, avvenuta il 9 giugno 1921, di Vincenzo Alferano, un miliziano che da giorni si aggirava con altri camerati per Valenza, con il chiaro intento di fomentare disordini e tensioni. Si dirà, come si fa spesso, che se l’era andata a cercare. La sua morte, per mano ignota, fu il pretesto o il casus belli per la repressione feroce e indiscriminata. L’omicidio diede inizio a una serie di arresti arbitrari, che colpirono esponenti di spicco del movimento di sinistra locale, tra cui Panzarasa, Mattacheo, Ferraris, Ratti, Zeme, Piacentini e molti altri. Nello stesso tempo, Valenza fu invasa da numerose squadracce fasciste provenienti dalla Lomellina, dal casalese e dal mandrogno, che seminarono il terrore con brutalità: bastonature, umiliazioni con l’olio di ricino, ferimenti, incendi, invasioni di luoghi pubblici e privati, e provocazioni continue miravano a piegare la resistenza della popolazione e a instaurare un clima di sottomissione.

    Poco tempo dopo, si assistette alla costituzione del fascio valenzano, guidato da dirigenti provenienti da fuori città, segno evidente della pervicace volontà di imporre un controllo centralizzato e autoritario. In questo contesto, emersero personaggi spesso animati da ambizioni personali e da un desiderio di rivalsa sociale, che si rivelarono, in sordina, conservatori e reazionari. Dissolti i temi storici della destra ottocentesca, a loro si unirono, in seguito, anche molti liberali e cattolici che si lasciarono completamente fascistizzare.

    Tuttavia, è fondamentale sottolineare che la violenza fascista non fu accettata passivamente e non mancò di suscitare una reazione vigorosa nell’ambiente socialcomunista valenzano. Numerosi furono gli atti di coraggio singoli e le azioni di forza organizzata, seppur spesso improntate ai più triti schematismi dottrinali che caratterizzavano quegli anni infami. Non si deve inoltre dimenticare la ferma dimostrazione di pazienza e di dignità mostrata dalla popolazione, che nonostante le sofferenze e le umiliazioni subite, non perse mai la speranza in un futuro di libertà e giustizia.

    La ricerca di un quieto vivere, un desiderio forse comprensibile in tempi incerti, si rivelò una scelta funesta, capace di deviare e confondere le strategie, che alcuni esponenti del movimento operaio sollecitavano con urgenza. Questi leader, dotati di una visione più lucida e lungimirante, intuivano il pericolo imminente e proponevano azioni concrete per arginare la crescente influenza del fascismo e la paura del futuro.

    L’assalto brutale al circolo comunista fu solo il preludio di una serie di atti vandalici e intimidatori: l’incendio devastante della Camera del Lavoro, simbolo dei diritti dei lavoratori, la distruzione e il saccheggio della sezione socialista, cuore pulsante della sinistra locale, l’imposizione coercitiva di abbandonare il Comune al sindaco Marchese, in piena crisi di autorevolezza, e all’intera inconsistente giunta socialista, lasciando campo libero al potere fascista. Persino la Società Generale di Mutuo Soccorso, pilastro della solidarietà sociale, fu presa d’assalto, e le cooperative, fondamentali per l’economia locale, furono costrette a passare nelle mani di esponenti del regime. Anche i luoghi di aggregazione giovanile, spazi di svago e di confronto, divennero bersaglio della repressione. Circoli come il Tramvai, il Mulino, l’Excelsior, l’Aurora e lo Juventus, frequentati da giovani con ideali e aspirazioni diverse, furono sistematicamente chiusi e soppressi, privando la gioventù valenzana di importanti punti di riferimento. Sulle rovine di questa vivace comunità, si ergeva il «Club» degli industriali, un’istituzione che rappresentava gli interessi del potere economico legato al fascismo. L’attività politica di opposizione, costretta a rifugiarsi in luoghi marginali e clandestini come i caffè, le cascine isolate e le baracche nascoste tra i boschi, veniva costantemente individuata e repressa.

    Nonostante la repressione, lo spirito di resistenza non si spense mai completamente. L’attività politica, seppur clandestina, continuava a pulsare sotto la superficie. Ogni evento era buono per fare contestazione, per esprimere, anche implicitamente, l’opposizione al regime e la volontà di un futuro diverso. La fiamma della libertà continuava ad ardere, alimentata dalla speranza e dalla determinazione di chi non si rassegnava alla dittatura. Il regime fascista, nonostante l’apparenza di monolitismo e controllo totale, si trovava a convivere con una sottile ma costante, corrente di sfottitura che serpeggiava anche all’interno delle sue stesse strutture. Le manifestazioni propagandistiche, concepite per esaltare il duce e la grandezza della nazione, spesso si trasformavano, involontariamente, in occasioni di derisione interna, finendo per auto-ridicolizzarsi. Il dopolavoro, pensato come strumento d’indottrinamento e controllo del tempo libero dei lavoratori, si rivelava sovente un luogo d’incontro per individui esuberanti (definizione di cortesia) animati da tutt’altri profondi sentimenti.

    Allo stesso modo, il sindacato obbligatorio di stato, anziché cementare l’adesione al regime, celava un diffuso malcontento. I corsi premilitari, l’inquadramento fascista di studenti e scolari, lungi dal forgiare cuori fedeli al fascismo, in alcuni casi davano luogo a vere e proprie dimostrazioni di fede democratica e antifascista, seppur velate e prudenti. Ma anche quando queste espressioni di dissenso non si manifestavano apertamente, tali strutture favorivano l’incontro, spesso involontario, di persone accomunate da un generico, ma radicato, sentimento antifascista. Insomma, laddove la classe operaia, dove i lavoratori erano presenti, fioriva un anticonformismo e un’avversione al regime che si esprimeva, non sempre con la forza di una rivolta, ma con la salace ripugnanza di chi si sente oppresso e disprezzato.

    La debolezza del regime, però, non risiedeva solamente nel dissenso latente della popolazione. Anche la qualità della leadership locale contribuiva a minare l’immagine di infallibilità che il fascismo cercava di proiettare. I dirigenti fascisti locali, infatti, raramente si dimostravano figure carismatiche o dotate di una profonda comprensione ideologica. Erano, piuttosto, dei pragmatici interessati principalmente al tornaconto personale.

    Essenzialmente, erano dei bravi borghesi, uomini comuni, ambiziosi, con una scarsa capacità di comprendere la complessità del mondo circostante. Imbevuti di ideali superficiali e di slogan propagandistici, non riuscivano ad andare oltre una goffa imitazione dei modelli ideologici propugnati dal regime. Erano troppo sicuri del proprio dominio, troppo convinti che il loro potere fosse eterno e incrollabile per accorgersi delle crepe che si stavano formando sotto i loro piedi, del crescente distacco tra la retorica del regime e la realtà vissuta dalla gente comune.

    Per comprendere appieno le dinamiche di questo periodo turbolento, e soprattutto l’azione del gruppo antifascista locale, si rende necessario un’analisi più approfondita. È cruciale tracciare un profilo dettagliato dell’attività clandestina, identificando le figure chiave, delineandone le estrazioni sociali e intellettuali, e soprattutto, differenziando le idee e le filosofie che li guidavano. Bisogna farli rivivere, immaginarli muoversi, discutere, tramare nei luoghi che frequentavano assiduamente.

    Il “Circolo Juventus”, ad esempio, non era semplicemente un’associazione sportiva. Era un centro culturale pulsante, animato da rappresentazioni teatrali e dibattiti che attiravano i rampolli della borghesia locale, sia quella più agiata sia quella più modesta. I figli della classe dirigente, delle professioni liberali, degli artigiani più intraprendenti trovavano lì uno spazio di confronto e di raggruppamento, dileggiati e criticati da tutti, antifascisti e fascisti.

    Il «Garibaldi», un caffè fumoso e accogliente, rappresentava invece il cuore pulsante dell’anima socialista cittadina. Qui, tra tavolini di legno e l’aroma intenso del caffè, si ritrovavano i membri della sezione giovanile, guidati dal carismatico Visconti, segretario con lo sguardo rivolto al futuro. Ma il «Garibaldi» era anche il ritrovo di un gruppo di anziani militanti, figure esperte e rispettate che, con la loro saggezza e il loro acume politico, influenzavano l’«opinione pubblica» del momento, plasmando il pensiero comune e alimentando la resistenza silente.

    Poi c’era la «Botte», il caffè del Municipio, un luogo di incontro trasversale dove le generazioni si confrontavano e si contaminavano a vicenda. I Demichelis, i Sacchi, i Lanza, i Sassetti, gli Amisano, i Genzone, i Ferraris, sono i nomi di coloro che animavano il dibattito politico cittadino, si ritrovavano lì, a volte divisi per età, altre volte accomunati dalla stessa sete di giustizia e di libertà. La «Botte» era frequentata dai padri e dai figli, dai vecchi socialisti e dai giovani ribelli, dalle guardie civiche e dai cittadini comuni, un microcosmo della società locale che rifletteva le tensioni e le speranze del tempo, animate con declinazioni diverse e da chiacchiere salottiere finto-strategiche in contrasto col sentire comune popolare.

    Impressionati dalla drammatica piega che gli eventi stavano prendendo, ma animati da una determinazione incrollabile a resistere alla crescente violenza fascista, molti cittadini si dedicavano attivamente alle sottoscrizioni di solidarietà. Sostenevano con donazioni anonime le famiglie delle vittime della repressione e finanziavano la pubblicazione clandestina del giornale «Avanti!», un simbolo di resistenza che veniva puntualmente colpito dalla furia devastatrice delle squadracce fasciste, ma che risorgeva sempre dalle proprie ceneri, alimentando la speranza in un futuro migliore. Queste sottoscrizioni, gesti di coraggio quotidiano, rappresentavano un filo sottile ma tenace che legava la comunità antifascista e alimentava la fiamma della ribellione.

    Sempre più frequenti e violenti si facevano gli scontri con le squadre fasciste, fomentate dall’impunità e dalla crescente influenza politica. Questi gruppi, agendo in spregio alla legge, si dedicavano sistematicamente alla distruzione delle sedi e alla soppressione dei giornali di orientamento socialista e comunista, simboli di un pensiero avverso che doveva essere silenziato con la forza. «Ordine Nuovo», «Avanti!», «Giustizia»: questi e altri periodici, espressione delle diverse correnti della sinistra, subivano regolarmente devastazioni, e la loro distribuzione veniva impedita con la violenza, soprattutto alla stazione di Valenza.

    Gli scontri che ne seguivano, spesso impari per la disparità numerica e per l’aggressività degli squadristi, finivano il più delle volte in risse furibonde, un turbinio di pugni, calci e bastonate che lasciavano sul terreno feriti e contusi. La bufera di violenza, tuttavia, non si limitava a colpire esclusivamente i partiti socialisti e comunisti. Ben presto, il clima di intolleranza e odio politico si estese a macchia d’olio, coinvolgendo anche altre forze politiche e associazioni, come il Partito Popolare e i giovani aderenti all’Azione Cattolica. Le urla feroci delle squadracce fasciste, cariche di livore, risuonavano nelle piazze: “A morte i comunisti!”. Ma ben presto, la furia ideologica si rivolgeva anche contro coloro che, pur distanti dal comunismo, rappresentavano comunque un’alternativa al pensiero unico fascista: «E poi, per far la pari, a morte i popolari!». Un segnale inquietante dell’escalation di violenza e dell’azzeramento di ogni forma di dialogo e tolleranza politica locale.

    A Valenza, durante il regime, c’era però anche un microcosmo locale che si agitava, animato da figure eccentriche e da ideali contrastanti che trovavano, a volte inaspettatamente, punti di contatto. Alcuni esponenti della sinistra, reduci dalle speranze infrante e desiderosi di costruire un terreno sociale coeso, riannodarono i fili di antiche amicizie e intrapresero nuove collaborazioni con esponenti cattolici. Ritrovarono così l’affabilità del professor Pippo Manfredi, uomo di lettere e fine intellettuale, la pragmatica saggezza del dottor Rulla, farmacista stimato e punto di riferimento per la comunità cattolica-popolare, la sensibilità artistica del professor Stanchi, pittore capace di catturare la luce della campagna valenzana sulla tela, l’intraprendenza del ragioniere Allaria, viaggiatore orafo instancabile e ambasciatore della creatività locale, e la maestria artigianale di Staurino, orafo di antiche tradizioni. A questi si aggiungevano altri membri del Partito Popolare italiano, ribattezzati con una punta di ironia “pipì” dagli esponenti della sinistra, in un gioco di parole che celava una competizione ideologica ma anche una velata ammirazione reciproca tra alleati-rivali.

    Nel volgere di breve tempo, si formò una compagnia antifascista quanto mai eterogenea e pittoresca, un crogiolo di personalità diverse per estrazione sociale, credo politico e interessi culturali. Al pianista Bellone si affiancavano Aviotti, Dabene, Ferraris, Genzone, Rigoni, Sforzini e Vaiarelli. A questi si unirono altri personaggi locali come Corona (Gasprì), con la sua fede incrollabile e la profonda conoscenza delle Scritture, Vaccario (L’Ancò), portavoce delle istanze dei lavoratori, e Casolati (Dante), figura carismatica e mediatore tra diverse anime della comunità.

    Questa variegata compagnia trovava un punto di riferimento, un polo gravitazionale, in Carluccio Visconti, l’ala destra della U.S. Valenzana, figura enigmatica e carismatica. In verità, Visconti era l’amico, il dirigente, l’animatore di tutto e di tutti. La sua influenza era palpabile, la sua capacità di aggregare e di ispirare innegabile. È attraverso le sue lucide illustrazioni, i suoi discorsi appassionati e le sue argomentazioni incisive che, con passo leggero e furtivo, molti hanno conosciuto la politica, i suoi meccanismi, i suoi intrighi, ma soprattutto i pregi, le virtù e i difetti degli uomini che la animavano, riflettendo su quella opinione troppo uniforme e ossessiva sempre rivolta in un certo modo senza critica.  Visconti era un catalizzatore d’idee, un interprete della realtà, un uomo capace di smuovere le acque stagnanti, di smussare con realismo e umiltà.

     

    Nel frattempo, alcuni comunisti o catto-socialisti riformisti, animati da una curiosità intellettuale che superava le rigide divisioni ideologiche, frequentavano anche le conferenze del professor Marconcini, erudito studioso, nel salone dell’oratorio. Le sue dissertazioni sulla «storia delle religioni» e «il pensiero sociale della chiesa» – un confronto tra la tradizione e la linea socialista marxiana – attiravano un pubblico variegato e stimolavano accese discussioni, che spesso si prolungavano in canonica, tra le mura silenziose che avevano ascoltato generazioni di fedeli.

    Questa frequentazione, per alcuni, era dettata da un sincero interesse verso tematiche spirituali e sociali, per altri, più pragmatici, che non riconoscevano legittimità a chi la pensava diversamente, rappresentava un tentativo di mimetizzarsi, di infiltrarsi in ambienti considerati avversari per comprenderne le dinamiche e influenzarne le decisioni. In questo panorama complesso emergevano tipi originali di intellettuali refrattari, figure eccentriche e anticonformiste, spesso incapaci di diversificazioni e di sfumature, portatori di verità assolute e refrattari al compromesso. Ma erano anche individui capaci, per fortuna, di non prendersi ininterrottamente tanto gravemente sul serio, di stemperare la tensione con una battuta, un sorriso, una sana dose di autoironia, consapevoli che la vita, anche quella politica, è fatta anche di leggerezza e di umanità. Una pleiade di sapienti sparsi, senza saperlo.

    La Valenza di quegli anni era un palcoscenico dove si rappresentava una commedia umana fatta di passioni, ideali, ambizioni, meschinità e, soprattutto, di un profondo desiderio di costruire un futuro migliore. La vita, in quegli anni oscuri, era un brulicare di sussurri e sguardi furtivi. Un paese Pirandelliano ululante alla luna, non c’è che dire.

    Ogni singola mossa del regime fascista veniva attentamente studiata, vivisezionata e ferocemente criticata, spesso a bassa voce, dietro porte chiuse o negli angoli bui delle osterie. Le notizie che filtravano dall’estero, in particolare quelle provenienti dalla Russia sovietica, venivano avidamente cercate, lungamente commentate e discusse con passione, spesso attraverso difficoltosi ascolti clandestini di radio straniere, rischiando pene severe.

    L’aria era satura di un’inquietudine palpabile, nutrita dalla repressione e dalla censura. Parallelamente, gli errori e le debolezze del partito socialista e del partito popolare diventavano sempre più evidenti, come crepe in un muro già compromesso. La necessità di una vasta unione di tutte le forze antifasciste si palesava con urgenza, una necessità impellente per organizzare una lotta attiva e coerente contro quel regime di terrore che si nutriva della paura e della divisione. Si sperava, attraverso questa unione, di esibire una forza unitaria e coesa che, individualmente, i vari movimenti non possedevano. Tuttavia, per molti valenzani, permeati da vecchie rivalità e diffidenze, l’idea di un’alleanza troppo stretta e da imbastire appariva problematica. Credevano che mescolare anime così diverse, con ideologie e interessi contrastanti, sarebbe stato un esercizio futile e controproducente, «come mettere insieme l’acqua e l’olio», un’immagine vivida che esprimeva la loro profonda sfiducia.

    Allo stesso tempo, emergeva con altrettanta chiarezza l’esigenza inderogabile dell’unità del proletariato in un solo partito di classe, un’entità forte e compatta, guidata da una disciplina ferrea scaturente dall’unità e unicità della decisione e dell’azione. Si sognava un fronte compatto che potesse rappresentare un’alternativa credibile al fascismo. Purtroppo, proprio alla vigilia della guerra etiopica, un evento che avrebbe ulteriormente radicalizzato la situazione politica, la figura carismatica e influente della guida Visconti venne improvvisamente a mancare, lasciando un vuoto incolmabile e minando gli sforzi di unificazione, privando il movimento di una leadership essenziale in un momento cruciale. La sua scomparsa fu un duro colpo per le speranze di molti, un presagio funesto per il futuro della lotta antifascista.

    Nonostante la marginalizzazione e la repressione che ne seguirono, quel gruppo, nato quasi in sordina, si dimostrò un centro nevralgico e inaspettatamente resiliente dell’opposizione al regime fascista. La sua influenza, inizialmente limitata a un piccolo circolo di intellettuali e dissidenti, si ramificò e si estese progressivamente, raggiungendo il suo apice durante le sanguinose e controverse guerre africane e la devastante guerra civile spagnola.

    Questo ampliamento, una sorta di necessità reciproca, non fu casuale ma frutto di un’abile tessitura di relazioni e di una strategia di reclutamento mirata. Attraverso una fitta rete di legami personali e ideologici, il gruppo riuscì a comprendere al suo interno un mosaico eterogeneo di figure: dai frequentatori di media età della “Botte”, ai veterani del “Garibaldi”, fino ad altri individui sparsi in ambienti sociali e professionali i più disparati. Pur animati da un’uniformità d’intenti, in altre parole la ferma volontà di abbattere il regime e instaurare un sistema più giusto e democratico, e nutriti da una comune speranza in un futuro migliore, questi oppositori mostravano un modo di pensare che, per quanto sincero e appassionato, peccava di unilateralità.

    Mancava, in definitiva, una solida unità ideologica, un corpus di principi condivisi e coerenti che guidasse le loro azioni e le definissero in modo inequivocabile. Invece, per alcuni, a legarli era piuttosto un vago e diffuso retrogusto di stampo leninista, una generica adesione ai principi rivoluzionari del marxismo-leninismo, declinata però in modo spesso superficiale e poco approfondito. E questo era il sintomo più evidente, anche se meno notato, dello stallo vigente, cosparso di finta deferenza.

    Fu con questo bagaglio di convinzioni, contraddizioni e speranze che molti affrontarono la seconda guerra mondiale, convinti, forse ingenuamente, che una soluzione positiva nei riguardi del fascismo, la sua definitiva sconfitta e la liberazione dell’Italia, sarebbe inevitabilmente scaturita proprio da quell’immane conflitto globale.

    Questi, dunque, non sono altro che i flebili e sbiaditi echi di una storia ormai defunta, di un’epoca di lotte e di ideali, animata da intenti rivoluzionari e da un anti sistema non sempre vero, considerata ormai superata e irrilevante dalla maggioranza delle persone. Il giudizio etico poi è estremamente semplice e ovvio: gli avversari erano e sono cattivi e scemi, odiati e attaccati a prescindere, i nostri erano e sono sempre  buoni e intelligenti.

    Oggi, invece, le rimembranze di quel passato, lungi dall’essere un fardello inutile, dovrebbero rappresentare un prezioso lascito, un monito costante e un’inesauribile fonte d’ispirazione per continuare la lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia, abbandonando quel dominante vittimismo piangente.

    TORNA AL BLOG DI PIER GIORGIO MAGGIORA

    SEGUI ANCHE:

    pier giorgio maggiora storia di valenza storicocittadelloro
    this is a test{"blog":"Blog", "il-piccolo":"Il Piccolo", "valenza":"Valenza"}
    Watsapp RESTA SEMPRE AGGIORNATO. ISCRIVITI AL CANALE WHATSAPP: È GRATUITO!
    Articoli correlati
    Leggi l'ultima edizione
    Leggi l'ultima edizione
    footer circle logo
    Site Logo in Footer
    Google Play App Store
    Copyright © - Editrice Gruppo SO.G.ED. Srl - Partita iva: 02157520061 – Pubblicità: www.medialpubblicità.it
    Chi siamo Cosa Facciamo Pubblicità Necrologie Alessandria Privacy Cookie Policy

    Il Piccolo di Alessandria AlessandriaNews NoviOnline AcquiNews CasaleNotizie OvadaOnline TortonaOnline ValenzaNews
    NewsGuard Logo Logo W3C