In Ucraina in Vespa per documentare la guerra
QUATTORDIO - La Vespa 125 come mezzo di trasporto, l'Ucraina come terra da raggiungere. E, come missione, il desiderio di…
ALESSANDRIA – Ha lasciato oggi l’Ucraina, Giuseppe E. Codrino, il 23enne di Quattordio che, in Vespa, ha raggiunto il Paese martoriato dalla guerra (con la sua 125 è arrivato a Gyor, al confine tra Ungheria e Slovacchia, poi si è spostato grazie a passaggi in auto).
Propenso al volontariato, ma anche all’attività documentaristica, Codrino propone ai lettori del ‘Piccolo’ un diario su un’esperienza carica di emozioni, problemi, soluzioni da trovare…
In Ucraina in Vespa per documentare la guerra
QUATTORDIO - La Vespa 125 come mezzo di trasporto, l'Ucraina come terra da raggiungere. E, come missione, il desiderio di…
“Priviet”, “Dobroe utro”, le uniche due frasi slave che conosco e utilizzo ogni giorno. Sarebbero gli equivalenti dei nostri “Ciao” e “Buongiorno”; il resto della lingua ucraina (contaminata da termini russi), mi resta incomprensibile.
All’inizio provavo a comunicare attraverso l’inglese, poi ho capito che non è molto diffuso, in pochi lo parlano, sebbene durante il periodo sovietico, nelle scuole secondarie, come forse in pochi sanno, era presente. Dall’indipendenza del Paese (nel momento in cui leggete si sta celebrando il 34° anniversario), l’insegnamento ha avuto un aumento nella qualità e nella quantità di ore. Per di più, non è insolito conversare con ragazze e ragazzi che parlano un buon inglese perché praticanti anche con un insegnante privato. Purtuttavia, la popolazione che non rientra nella categoria delle “nuove generazioni”, non lo parla quasi, o se lo parla è un ucraino inglesizzato, poiché le poche basi scolastiche del sistema sovietico, non utilizzandole molto, le hanno perse.
Per documentare, naturalmente, è necessario comprendere con chi in questo paese ci vive da sempre. Osservare silenziosamente, la gente che passa, seduto in qualche parco (le città ne hanno molti), può farmi percepire qualche dato generale: chi è in giro, l’età media, il genere, la presenza o assenza di persone straniere, provare a capire se vanno al lavoro, oppure i gruppi di ragazzi come si divertono.
Tutto questo è importante, ma capite bene, non è lontanamente sufficiente per raccontare, o meglio tentare di farlo, una Nazione intera, per lo più con una feroce guerra all’interno. Quindi, parlare e conquistare la fiducia dei singoli è stata la mia chiave d’accesso a un sistema culturale e sociale di cui ben poco sapevo fino ad ora.
A disposizione non ho avuto molto tempo: due sole settimane; quattordici giorni, un niente. Per cui, fin dalla preparazione a questo lavoro, ho dovuto sviluppare una strategia il più efficiente e sostenibile (in termini di sicurezza personale) data, appunto, dalla mia presenza senza segni di erba calpestata.
Avevo il vuoto. Temevo di andare e fare qualche inutile foto a qualche palazzo bombardato, oppure fermare le persone in strada per chiedergli di raccontare ciò che più volessero -modalità che poi ho utilizzato con successo: sarò fortunato io, oppure la maggior parte delle persone risultano come quelle che effettivamente ho incontrato, giacché avevano grande fervore a raccontare, l’unica richiesta, ovviamente, era l’assenza dei nomi e delle foto.
Nulla, non trovavo un modo: leggevo, ascoltavo le esperienze di chi prima di me c’era stato, sfogliavo i giornali internazionali, ero conscio di non aver il budget per un traduttore e il sistema culturale-sociale, temevo mi si posizionasse davanti, creandomi un muro di reti: vedere appannato senza poter mettere a fuoco. Ma poi, ho iniziato a notare, nelle letture, seppur in pochi casi, la presenza della parola: volontari. Non ne parlano in molti, vengono per aiutare l’esercito o per questioni civili-umanitarie. Essi provengono da ogni angolo del mondo; addirittura da Paesi in stretto contatto con la Russia; credo sia il loro modo per disapprovare un governo incriticabile, se non con la conseguenza, criticandolo, di ripercussioni alla propria persona. Stare in stretto contatto con gli ucraini, lavorandoci, mi permetterà di conquistare l’elemento più importante per ogni ricerca, ogni documentario, ogni articolo ben fatto, ossia la fiducia. Attraverso essa, le persone si aprono, si fidano, alla fine sono qui anche per aiutare il loro Paese.
E una volta ottenuta questa, come un vento improvviso, iniziano a raccontarti gli ultimi tre anni: cos’hanno passato e vissuto, ti invitano ad uscire con loro, prendere un caffè, entrare nelle conversazioni e visitare le loro case ( è una semplificazione, ma rende l’idea). Oltre a tutto questo, spesso, nelle associazioni di volontariato, c’è almeno una persona che parla, bene o male, l’inglese.
Ho trascorso diversi giorni nelle quattro città principale, Lviv (Leopoli nella traduzione italiana), Kyiv, Kharkiv e Odessa. In tutte ho eseguito dei lavori, eccetto per Kharkiv: quando sono arrivato, qualche giorno fa, la situazione sul fronte, che è a pochi chilometri da lì, non consentiva di svolgere i lavori in sicurezza. Permettetemi, ora che cito i luoghi, di raccomandarvi di leggere ciò che scrivo, con una carta geografica, oppure utilizzare qualche sito aggiornato sulla situazione attuale (DeepStateMap). Vi aiuterà sia per capire al meglio ciò che scrivo, sia per capire le altre fonti: telegiornali, articoli o podcast.
Queste quattro città, potreste averle sentite tutte, e magari pensare a una situazione simile, fra loro, in termini di conflitti e pericolosità. Vi assicuro che non è per nulla così, ma ci tornerò con un prossimo articolo. Tornando a noi, che tipi di lavori erano?
A Lviv (Leopoli), aiutavo nella produzione di reti anti-drone. Sono molto simili a quelle che utilizziamo per recintare i giardini, anzi, sono quasi sicuro siano quelle. Essendo di plastica, sono molto flessibili e quando un drone sgancia una mina, la reti possono essere in grado, purtroppo non accade sempre, di far rimbalzare l’esplosivo lontano da ciò che proteggono: una trincea, del materiale ad uso dell’esercito o una costruzione. A queste reti si aggiunge un tessuto incastrato attraverso diverse tecniche; non è così semplice da applicare, ci ho messo un po’ per imparare. Viene implementato, questo materiale, per far sì che i radar si confondono davanti a questi intrecci particolari ( servono per creare una confusione di colori), cosicché non possano colpire ciò che le reti proteggono.
Successivamente , mi sono spostato a Kyiv, dove ho svolto due lavori differenti: costruire altre reti, utilizzando tecniche diverse rispetto a Lviv; pulire un edificio con evidenti segni di sparatorie ed esplosioni. Ve lo racconto meglio, è andata così: contatto attraverso Telegram un’associazione, nota in città per la professionalità e la qualità di coinvolgimento di tutti nel lavoro (non dimenticate mai che queste persone convivono da oltre tre anni con il mostro della guerra). Mi rispondono poco dopo, verificano che io sia una persona affidabile; fatto ciò, mi ricontattano e inviano un’ora e un indirizzo: l’indomani alle ore 9:00 mi sarei dovuto far trovare a quelle coordinate.
Mi sveglio presto, il luogo dista più di un’ora da dove alloggio, in più faticavo a dormire. Non avevo un’idea completa di che cosa avremmo fatto. So solo che non saremmo restati in città. Percepisco alta tensione e agitazione. Da fonti vicine a me, però, so che si tratta di persone affidabili. Penso a questo e mi tranquillizzo. Esco dall’ostello, attraverso la strada e mi dirigo in metropolitana (quando scelgo dove dormire, verifico sempre la distanza da questa, così da usarla come luogo sicuro, shelter, in caso di pericolo). Procedo all’indirizzo concordato, aspetto qualche minuto, arrivano altri tre volontari, due ucraine e un cinese, dopo altri cinque minuti, un furgone si ferma davanti a noi (ha gli adesivi dell’associazione contattata). Saliamo e ci dirigiamo in direzione nord-ovest. Passiamo senza essere fermati in diversi checkpoint, ce ne sono molti nelle strade ucraine. Dopo circa 35, 40 minuti, ci fermiamo in mezzo a dei campi. Intorno a noi ci sono solo i segni di vecchi combattimenti e una costruzione danneggiata. È una specie di capannone, di notevoli dimensioni (verrò a sapere che era una tipica fattoria sovietica). Siamo fra Buča e Irpin’. A inizio 2022, i russi hanno occupato per diversi giorni queste città. Il fiume Irpin’, che crea un confine naturale fra queste cittadine e Kyiv, in particolare dove c’è uno dei pochi ponti per attraversarlo ( fatto esplodere per proteggere la capitale e già ricostruito), divideva i battaglioni ucraini da quelli russi. In questa zona, a nord del fiume, i russi hanno commesso noti crimini di guerra verso i civili.
Mi guardo intorno, ricordo ciò che ho letto negli anni passati su questo sfortunato territorio, respiro, trattengo per qualche secondo l’aria, penso sia più sicura perché sono su un veicolo con persone desiderose di aiutare, mi rendo conto dell’ingenuità, espiro mentre apro la portiera per scendere dal furgone. Sul luogo noto altri due volontari, un australiano e un rumeno. Ci offrono da bere, e dopodiché, «Okay, come here, now work!». Entriamo nell’edificio, terra, detriti, buio, c’è molta polvere. Ci vengono consegnati una maschera per consentirci una respirazione in totale sicurezza, dei guanti, occhiali di protezione e una pala. «So guys, this warehouse will be reused to distribute recycled material left from russian destruction». Lo spreco è inconcepibile.
Per cui iniziamo a togliere i detriti. Un lavoro che ci terrà occupati per tutto il giorno. Uso la pala, carico la carriola, vado a svuotarla, ripeto. Il tempo viene accelerato dal racconto della vita delle due giovani ucraine e degli altri volontari. Durante la giornata vedo facce nuove, vengo a sapere che, non lontano da lì, un’altra squadra stava riqualificando un edificio che si trovava in mezzo a una zona di forte combattimento, esso è in condizioni ben peggiori del nostro. Vengono da noi per controllare, verificare o fare due parole.
Sono a nordovest di Kyiv, fa caldo, è il 15 agosto, Ferragosto. Ho davanti racconti di vita, di morte, di sopravvivenza, segni di esplosioni, sento gli allrmi aerei, poco lontano. Ci ho pensato solo alla sera, una volta aperto Instagram, che in Italia era giornata di pausa e festa.
Il terzo lavoro lo avrei dovuto svolgere a Kharkiv, ma, come vi dicevo, è stato annullato dalla situazione di maggiore pericolosità in quell’area (per tutto agosto l’esercito ucraino è stato in difficoltà), ed effettivamente è stato il luogo in cui ho provato la tensione e il timore più forte, nella mia esperienza in Ucraina.
Infine, viene Odessa, la città sul mare più celebre del paese. Essa ha avuto contatti di commercio navale sin dai tempi della Grecia classica. Qui, nel momento in cui scrivo, sto trascorrendo l’ultimo giorno di lavoro. Ho svolto per tre giorni mansioni per preparare e diffondere agli indigenti o agli esodati dell’est dell’Ucraina, del cibo. Il nome di questa associazione è ‘Food For Odessa’, (fa parte della più ampia rete conosciuta come ‘Food For Life’ ), localizzata in un ristorante vegetariano, con all’interno un piccolo tempio induista. L’Ucraina ha molti piatti con la carne, è diffusamente apprezzata, per cui, specialmente in questi anni, non è sostenibile questo posto ed è stato riadattato per ospitare appunto lo staff di Food for Odessa (esisteva anche prima della guerra).
Hanno un’ambulanza che utilizzano per trasportare, in due punti differenti della città, il cibo cucinato poco prima. Ho aiutato in questo, nonostante le mie abilità in cucina siano quelle di uno studente fuori sede ( qui non lo dico giacché la nostra cucina italiana è venerata. Quando nominano i nostri piatti, fra l’altro, lo fanno con un accento perfetto, annuisco e lascio intendere che se solo avessi gli ingredienti, li potrei fare… lascio intedere, perché se lo dicessi, sono certo che me li procurerebbero). Mi occupo di preparare una specie di minestrone e il Borsch, un piatto molto apprezzato in Ucraina: la ricetta tradizionale sarebbe con la carne ma in base a chi lo cucina o dove ci si trova, ci saranno delle varianti. Noi lo abbiamo preparato vegetariano. Una volta terminate le mie mansioni, aiutavo a caricare il tutto sul furgone-ambulanza e ci dirigevamo, come detto poco sopra, in due differenti punti di Odessa per distribuire il cibo. I miei occhi sono pieni della gratitudine delle persone che mi allungavano il piatto per la loro porzione, “Spasiba, spasiba” (grazie) e tante altre parole che linguisticamente non capivo, ma le loro pupille erano chiare e leggibili.
Qui terminerebbe la mia esperienza lavorativa, essa è stata fondamentale e imprescindibile per una comprensione di base del Paese. Ripeto, di base. Due settimane non sono lontanamente sufficienti per una divulgazione completa. Certo, non siamo in molti italiani ad essere venuti qui (eppure, ci sono giornalisti che fanno un ottimo lavoro), per cui potrei, con questi articoli, essere il “poco è meglio che niente”. Forse è così. E ammetterlo è il mio inchino, la mia rimozione del cappello, di fronte a questa Nazione.
Questa presa di coscienza viene alla fine della mia esperienza di volontariato: l’ultimo giorno con ‘Food For Odessa’, ho chiesto a un giovane volontario ucraino: «Viktor (nome di fantasia), what do you think of people who do jobs like mine? Your country is at the center of world news», lui mi ha risposto: «Giuseppe there are a lot of problems in my country and they’re often told in the wrong way. The problem isn’t you, I know you try to do your best. The problem is the journalists or the people who talks about Ukraine, they just say whatever they want. But right now, I don’t have time to tell you more». E così si è conclusa la nostra conversazione. Ci siamo scambiati i Telegram e si è reso disponibile a rispondere a tutte le curiosità e domande che avrò, cosicché potrò rendere il più veritiero e rappresentativo il mio lavoro divulgativo. Le sue integrazioni occupano una dimensione notevole del bagaglio con il quale lascerò l’Ucraina.
Ho scritto tutto, per farlo ho utilizzato un quaderno comprato qui. Al suo interno scrivo le idee, i suggerimenti o gli articoli che sviluppo il giorno e la notte, metto tutto sul cellulare trascrivendo per diffonderlo online. Stavo per fare quest’ultimo passaggio dell’articolo, avevo quasi terminato, la parola fine era presente, poi, però, rileggendolo, mi sono soffermato a cosa mi avesse detto Viktor: «Who talk about Ukraine, they just say whatever they want» (chi parla dell’Ucraina, dice quello che vuole). Ha ragione. Ma so di certo che le uniche informazioni che contano e che rimarranno, in questo dannato mondo, sono quelle realmente veritiere. Non come chi vorrebbe far credere che la realtà sia sensazionalismo o di chi cerca, per estetica, questi sentimenti con la scrittura. Si dice che il tempo sia il più grande architetto di tutti i tempi, non esistono costruzioni arcaiche “brutte”, così farà con la Storia, selezionerà dal mondo informativo gli eventi realmente accaduti, nel modo opportuno per poterli tramandare.
«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia» Hamlet.