Valenza e Alessandria contro Barbarossa
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Il Barbarossa (detto anche enobarbo, cioè barba di bronzo) era il legittimo Re d’Italia e mezzo Paese era d’accordo con lui quando si offrì di mettere fine all’anarchia che prevaleva nei Comuni italiani. Per restaurare la sua autorità, egli scese nella nostra zona al fine di punire il comportamento ribelle di Asti e di Tortona. Nel 1154 anche Valenza veniva occupata dalle sue truppe e nell’anno dopo anche i pavesi (complici di Federico) dilagavano in tutta la Lomellina fino a Valenza, per vendetta contro l’ingerenza dei Conti di Lomello sulla loro città di Pavia. Questi comuni aggrediti, ormai demoliti e votati al suicidio, si univano allora in lega con Milano e Vercelli e furono nuovamente saccheggiati, come Milano, dalle cosiddette milizie imperiali nel 1162. Si formò così la Lega Lombarda dei Comuni (la Societas Lombardiae, 1167) con lo scopo di sconfiggere l’Imperatore tedesco.
L’atteggiamento malevolo degli abitanti di questa nostra zona nei confronti del Barbarossa accrebbe in modo perentorio quando nel 1164 (diploma stilato nel dicembre 1163) quest’ultimo attribuì a Guglielmo V del Monferrato diverse corti regie in questo territorio.
Nel cuore del XII secolo, a sud dell’allora emergente Comune di Valenza, si trovava un mosaico di piccoli borghi, destinati a convergere e a dare vita alla futura Alessandria. Tra questi insediamenti, spiccavano tre nuclei principali: la curia regis Gamondio (Gamondium), un centro amministrativo di notevole importanza, la curia regis Rovereto (Roboretum), anch’essa legata al potere regio e caratterizzata da una fiorente attività commerciale, e Bergoglio (Bergolium), situata nell’area dove oggi si erge la maestosa Cittadella di Alessandria. Bergoglio e Rovereto, pur essendo entità distinte, erano strettamente interconnesse. Un solido ponte di legno, testimone di un’ingegneria rudimentale ma efficace per l’epoca, ne facilitava il passaggio di persone e merci, alimentando gli scambi economici e sociali tra i due borghi. Entrambi condividevano un porto fluviale, vitale arteria per il trasporto di beni lungo le acque, contribuendo in modo significativo alla loro prosperità.
Rovereto, in particolare, vantava un castello, più precisamente un «castrum», ovvero un luogo fortificato di primaria importanza strategica. La sua posizione era adiacente a un gioiello architettonico di rara bellezza: la chiesa romanica di Santa Maria di Castello. Scavi archeologici hanno portato alla luce tracce preziose di una struttura preromanica, caratterizzata da un’aula absidata, databile tra l’VIII e il IX secolo. Questa scoperta, di grande valore storico, rafforza l’ipotesi di una continuità insediativa tra l’antico borgo di Rovereto e l’abitato medievale, suggerendo una radicata presenza umana nella zona fin dall’alto medioevo.
Guglielmo V degli Aleramici, marchese del Monferrato era un personaggio di spicco emerso dalle nebbie del tempo. Noto anche come Guglielmo III o Guglielmo il Vecchio (circa 1110-1191), era l’unico figlio maschio del marchese Ranieri degli Aleramici e di Gisella di Borgogna. Assunse le redini del marchesato nel 1137 (1136?), governando con sagacia e determinazione, lasciando un’impronta indelebile sulla storia del Monferrato e contribuendo, indirettamente, alla futura nascita di Alessandria dalla fusione di questi piccoli ma vitali, centri abitati.
La sua figura di condottiero e stratega politico, unita alla sua ascendenza nobiliare, lo rese una figura centrale nello scacchiere politico del XII secolo, ma pure una minaccia permanente nella nostra zona. Conferì nel 1162 il titolo di signori di Lazzarone (ora Villabella) ai figli di Ferdinando Sannazzaro, e il titolo di signori di Valenza ai Visconti di Monferrato. La sua eredità avrebbe influenzato gli equilibri di potere nella regione per generazioni a venire.
Poco dopo, nel 1164, un evento cruciale solidificò ulteriormente l’importanza di Valenza: l’imperatore Federico I Hohenstaufen, soprannominato Barbarossa (1122-1190), una delle figure più carismatiche e influenti del medioevo, impegnato in un’aspra lotta di potere contro il papato e i Comuni italiani per l’egemonia territoriale, emise un diploma di particolare rilevanza. In questo documento ufficiale, il Barbarossa menzionava esplicitamente Valenza, includendola tra i territori saldamente posti sotto il dominio di Guglielmo V, riconoscendone la sua autorità nella regione. Ma il diploma imperiale non si limitava a questo: nominava inoltre Anselmo, Raineiro e Oberto Visconti, esponenti di spicco della potente famiglia monferrina, signori di Valenza, sancendo la loro influenza e il loro ruolo di primo piano nell’amministrazione e nella difesa della città, ma che molto hanno fatto per non contare alcunché.
Questo documento imperiale, pur giunto a noi attraverso i secoli, rappresenta una delle poche e preziose testimonianze dirette che possediamo riguardo alla condizione di Valenza e alle dinamiche politiche che la caratterizzavano in quel periodo storico turbolento. Rivela non solo la sua importanza strategica, ma anche le complesse interazioni tra le diverse forze in gioco. Sappiamo, inoltre, che il Monferrato in generale, e quindi Valenza in particolare, si trovava al centro di un’area geografica contesa e fortemente influenzata da diverse potenze politiche dell’epoca, tra cui il Sacro Romano Impero e il Papato, ciascuno con le proprie mire espansionistiche e i propri interessi da difendere.
Le famiglie nobili locali, come i Visconti, si trovavano quindi costrette a navigare in queste acque agitate, cercando di preservare i propri privilegi e di mantenere il controllo sul territorio. Tuttavia, la dominazione di Guglielmo V e l’influenza imperiale non furono accettate da tutti a Valenza. Tra i più determinati oppositori al marchese Guglielmo V e alla pretesa autorità dell’imperatore si distinse l’ingombrante figura del console valenzano Rufinum. Questo personaggio, animato da un forte spirito d’indipendenza e probabilmente da un’avversione al potere centralizzato, rappresentò un ostacolo efficace per i piani di Guglielmo V e di Federico Barbarossa. La sua opposizione ingombrante, però, ebbe un costo: nel 1167, Rufinum fu messo al bando dall’Impero, costretto all’esilio e privato dei suoi diritti, un chiaro segnale della determinazione dell’imperatore guerrafondaio a sopprimere qualsiasi forma di resistenza e a consolidare il proprio dominio sulla regione. Un altro valenzano detentore di una certa influenza e potere era Anselmus de Valenza (Visconti).
La sedizione che è avvenuta ad Alessandria, e che ha coinvolto anche Valenza (costretta a giocare un ruolo a rimorchio) in questi anni, ha avuto quali principali attori alcuni milites (valvassori che possedevano terre e diritti), la classe feudale di secondo grado. Essi comparivano come consoli di queste città, quelli che avevano il potere nelle loro mani, cui era necessario inchinarsi, al fine di ingraziarsi; era indubbio che coloro i quali non si genuflettono di fronte a lorsignori avevano vita grama.
Manfredo di Valenza, Ruffino di Bassignana, i Ruffino e i Raineri di Mirabello, gli Oberto da Foro, gli Aleramo da Marengo, Pugno di Gamondio, i Guasco, Peregrino di Piovera, gli Amedei di Fubine, Manfredi di Isola, rappresentavano quella classe di milites che formavano nel secolo XII il nerbo della società nel nostro territorio. Hanno avuto benefici dai marchesi e dai vescovi; erano la classe intermedia fra i grandi e gli infimi.
Nei successivi quindici anni (dalla prima comparsa dell’imperatore davanti a Valenza e Tortona nel 1155) le plebi rurali valenzane dovettero alquanto soffrire. Le crudeltà teutoniche e alleati pavesi furono pesanti. Le corvées imposte, gli abbattimenti di mura, gli scavi per le mura nuove, le distruzioni di villaggi e di messi saranno a lungo ricordate con terrore.
Nel tumultuoso scenario politico del XII secolo, nel 1168, la Cesaria-Civitas Nova diventava Alessandria, una città destinata a segnare la storia del Piemonte. Il suo nome fu scelto in onore di Papa Alessandro III, figura chiave nella coalizione che si opponeva con fermezza all’imperatore tedesco Federico Barbarossa, in un’epoca di profonde tensioni e pregiudizi tra il potere imperiale e quello papale. Alessandria si configurò fin da subito come la più accanita rivale dei marchesi del Monferrato, di Casale, e, in misura più marginale, di Valenza, città con cui condivideva il controllo del territorio.
Ironia della sorte, il nucleo originario di questa nuova fiera avversaria era un castello costruito proprio dai patrizi monferrini: il castello di Rovereto. In un’epoca in cui il controllo del territorio era sinonimo di potere, i marchesi aleramici, costantemente preoccupati di proteggere i loro possedimenti dalle incursioni provenienti dalla pianura alessandrina, considerata vulnerabile, decisero di erigere, in accordo con il marchese del Bosco, signore del luogo, una fortificazione strategica. La scelta del sito cadde su un’altura dominante la confluenza tra i due fiumi che avrebbero caratterizzato il paesaggio alessandrino: il Tanaro e la Bormida. La decisione non fu casuale ma dettata da un’attenta valutazione della sua posizione strategica. A cavallo dei due fiumi, con una vista panoramica sulla pianura circostante, il castello, munito di due imponenti torri, si ergeva come un avamposto solitario, destinato a vigilare e a proteggere i territori aleramici.
La presenza del castello di Rovereto, con la sua promessa di sicurezza e stabilità, attrasse immediatamente le famiglie dei dintorni, desiderose di sfuggire alle incertezze e ai pericoli del tempo. Attorno alla fortezza iniziò così a formarsi un agglomerato umano, un vero e proprio crogiolo di genti provenienti da diverse realtà, che avrebbe costituito il tessuto sociale e demografico della futura Alessandria. La nuova città, grazie alla sua posizione strategica e alla protezione offerta dal castello, crebbe rapidamente, sviluppando una propria identità e un forte senso di appartenenza. La sua espansione fu favorita anche dall’unione con i comuni limitrofi: Bergoglio, Marengo e Gamondio, che, consapevoli dei vantaggi derivanti dall’unione, decisero di confluire nella nascente entità urbana, contribuendo a rafforzarla ulteriormente e a consolidare il suo ruolo di centro nevralgico della regione. Alessandria, dunque, nacque da un castello monferrino, ma si trasformò presto in un simbolo di resistenza e di libertà, destinata a lasciare un’impronta indelebile nella storia del Piemonte.
Nello scenario storico e politico del XII secolo, segnato da ambizioni imperiali e rivalità territoriali, vide la luce questa nuova entità urbana: Cesaria o Civitas Nova. La sua genesi fu un atto di omaggio e deferenza verso la figura di Federico I di Svevia, l’imperatore conosciuto anche come il Barbarossa, che si ergeva a arbitro supremo e a potente protettore dei marchesi di Monferrato, signori di queste terre. La scelta del nome, Cesaria, era un chiaro tributo al potere imperiale, un segnale di allineamento e fedeltà verso l’autorità che dominava la regione. Tuttavia, il destino di Cesaria, come spesso accade nella storia delle città, si rivelò tutt’altro che statico. Con il passare degli anni, e con la progressiva crescita demografica e sociale, l’originario orientamento politico della città subiva una profonda trasformazione. Una nuova ondata di abitanti, provenienti da diverse aree geografiche, si riversava tra le sue mura, portando con sé nuove idee, nuove ambizioni e, soprattutto, una diversa visione del futuro. Gran parte di questi nuovi cittadini erano reduci dalle città di Milano, Tortona e Valenza, già devastate dalle campagne militari dello stesso Barbarossa.
Fuggiaschi in cerca di un nuovo inizio, essi avevano subito sulla propria pelle le conseguenze del potere imperiale e nutrivano un sentimento di risentimento e ribellione. A loro si unirono abitanti provenienti dai paesi vicini, come Quargnento, Oviglio, Solero e altri, tutti desiderosi di contribuire alla costruzione di una comunità più autonoma e prospera. L’influsso di questa nuova popolazione, che portò a superare le 8mila unità (il doppio di Torino), fu determinante. La loro presenza modificò sostanzialmente la «tinta politica» della città neonata, che abbandonò gradualmente l’orbita dei marchesi del Monferrato e del Bosco.
Al contrario, Civitas Nova o Cesaria abbracciò con entusiasmo la causa dei comuni della Lega Lombarda, l’alleanza di città del Nord Italia che si opponeva fermamente alle pretese imperiali del Barbarossa. Questo cambiamento di alleanza fu un atto di coraggio e determinazione, una sfida aperta al potere imperiale. E come spesso accade nella storia, un cambiamento di bandiera portò con sé anche un cambiamento di nome. Cesaria, simbolo di sottomissione all’imperatore, non rifletteva più l’identità e le aspirazioni dei suoi abitanti. Fu così che, in un atto di affermazione della propria autonomia e identità, la città assunse un nuovo nome: Alessandria. Un nome che voleva celebrare la libertà e l’indipendenza conquistate, un nome che avrebbe segnato per sempre la sua storia.
La fondazione di Alessandria rappresentò ben più di un semplice atto amministrativo; fu una dichiarazione di sfida aperta, un guanto di velluto gettato con determinazione ai piedi del tracotante imperatore Federico Barbarossa, nemico giurato del papato. Quale gesto più audace si poteva concepire se non quello di dedicare la nuova città al nome di Papa Alessandro III, l’uomo che osò sfidare il potere imperiale con la scomunica e che, con la sua visione, aveva galvanizzato e promosso la Lega Lombarda? Federico Barbarossa, uomo abituato all’obbedienza e al dominio incontrastato, percepì immediatamente l’affronto.
La nascita di Alessandria fu interpretata come un atto di ribellione, una spina nel fianco del suo impero. Irritato e offeso nell’orgoglio, il Barbarossa, ormai incapace di imporre un ordine sovracomunale, non esitò ad aggiungere la città rivale all’elenco degli insediamenti da annientare, un monito per chiunque avesse osato mettere in discussione la sua autorità. Ma l’imperatore, accecato dalla sua arroganza, sottovalutò la resilienza e il coraggio che animavano il popolo alessandrino. Sul finire del 1174, dopo aver radunato le sue forze, il Barbarossa mosse il suo imponente esercito verso Alessandria, determinato a radere al suolo quella che considerava una provocazione intollerabile.
L’assedio iniziò il 29 ottobre 1174, protraendosi per mesi, fino al 12 aprile 1175. Con orgogliosa noncuranza, e forse con un pizzico di superbia mal riposta, l’imperatore, avvicinandosi alle mura della città, esclamò con disprezzo: «Andiamo a dare fuoco a quel mucchio di strame!». La frase, pronunciata con la sicumera di chi si crede invincibile, si rivelò presto un’illusione.
Benché Alessandria, eretta in fretta e con risorse limitate, presentasse un tessuto urbano caratterizzato da numerose abitazioni modeste con tetti di paglia e fango, le difese militari della città erano state concepite e realizzate con perizia e ingegno. Il baldanzoso assalto delle truppe di Barbarossa si infranse contro le mura robuste e le postazioni difensive degli alessandrini. La cronaca dell’assedio si trasformò in un susseguirsi di tentativi falliti. L’impeto delle truppe imperiali venne respinto una, dieci, cento volte, con determinazione e coraggio inesauribili. Il valore degli alessandrini si rivelò superiore alla potenza dell’assedio teutonico, una lezione amara per l’imperatore.
Il profondo fossato difensivo, scavato con fatica e maestria, e la natura stessa del terreno circostante, offrirono un aiuto prezioso agli intrepidi assediati, che, per di più, si erano premurati di accumulare riserve alimentari sufficienti a resistere a un lungo assedio. La città si dimostrò tutt’altro che un «mucchio di strame», bensì un baluardo di resistenza e un simbolo di libertà. L’assedio si protrasse implacabile, avvolgendo Alessandria in una morsa di ferro.
Le piogge insistenti d’inizio primavera tramutarono il terreno attorno alle mura in un pantano, rendendo la vita degli assedianti un inferno di fango e disagio: i loro accampamenti erano a mollo, trasformati in acquitrini insalubri. La resistenza di Alessandria, lungi dal cedere, si faceva sempre più tenace. Nel frattempo, la fiamma della solidarietà divampava tra le città della Lega Lombarda. Milano, Piacenza, Brescia e Verona, sorelle nella lotta contro il potere imperiale, non potevano permettere che Alessandria soccombesse. Queste città, unite da un vincolo di fratellanza e di mutua difesa, organizzarono un corpo di spedizione, un esercito determinato a rompere l’assedio e a portare aiuto alla città assediata.
Le truppe della Lega si mossero celermente, marciando verso Alessandria con il cuore gonfio di speranza e di coraggio. Lo scontro con l’esercito di Federico Barbarossa divenne inevitabile e si consumò tra Voghera e Casteggio (quasi una terra di mezzo), in una battaglia campale che segnò una svolta nella lunga campagna. Le forze della Lega, animate da un fervore inaspettato e dalla determinazione a proteggere la loro libertà, inflissero agli aggressori d’oltralpe una sonora sconfitta.
Barbarossa, abituato alle vittorie, incominciò a provare l’amaro sapore della disfatta, un gusto che non conosceva da tempo. E intanto, dietro quelle mura che egli disprezzava, quel «mucchio di strame», come sprezzantemente definiva Alessandria, non si decideva a capitolare. La resistenza era ostinata, irriducibile. Barbarossa, sempre più esasperato, ricorse a ogni mezzo per piegare la città ribelle: profuse promesse e lusinghe, sperando di corrompere i suoi difensori con la prospettiva di ricchezza e privilegi; al contempo, brandì minacce terribili, evocando distruzione e morte qualora la città avesse osato persistere nella sua ribellione. Ma nulla ottenne. Alessandria, la città umile, con i suoi tetti di paglia, celava un cuore d’acciaio, temprato dalla determinazione e dalla fede nella propria causa. Due circostanze, intrecciate tra storia e leggenda, vennero a far precipitare gli avvenimenti, sigillando il destino dell’assedio. La prima, storica e tangibile, fu l’arrivo a Tortona di un nuovo, poderoso esercito della Lega Lombarda, un rinforzo inatteso che galvanizzò i difensori di Alessandria e mise ulteriore pressione sull’imperatore. La seconda, avvolta nel fascino del mito popolare, fu l’astuto stratagemma ingannatore ordito da Gagliaudo Aulari, il pastore produttore di formaggi. Con la sua sottile trovata della mucca satolla di grano, Gagliaudo, con la sua apparente innocenza contadina, riuscì a turlupinare il feroce imperatore, facendogli credere che la città avesse scorte alimentari inesauribili.
Alle due impreviste rivelazioni, Barbarossa perse il lume della ragione. La frustrazione, la rabbia e il disorientamento lo accecarono, portandolo a compiere un atto di perfidia. Divenne anche spergiuro. Nell’aprile del 1175, dopo aver offerto sotto giuramento una tregua pasquale di due giorni, un gesto che avrebbe dovuto simboleggiare rispetto e pietà, tentò, nella notte stessa, di sorprendere le difese della intrepida città, sperando di coglierla impreparata. Ma la vigilanza dei difensori di Alessandria era inesorabile. Bastò una sentinella, attenta e scrupolosa, a gettare l’allarme, sventando il vile tentativo e dimostrando ancora una volta l’incrollabile determinazione di Alessandria a difendere la propria libertà.
La furia della battaglia si scatenò con una rapidità sorprendente. Gli assalitori, colti in flagrante nel loro vile tentativo, furono sopraffatti e annientati in un batter d’occhio. Lo sdegno che serpeggiava tra gli Alessandrini, un’onda crescente di rabbia per un tradimento così meschino e inaspettato, raggiunse un punto di rottura. Incapaci di contenere ulteriormente la loro indignazione, gli abitanti di Alessandria, animati da un coraggio furioso e da una determinazione incrollabile, osarono sfidare la sorte e attaccarono l’esercito imperiale di Federico Barbarossa al di fuori delle possenti mura cittadine.
L’impeto del loro assalto fu tale, la loro violenza così inaudita, che l’esercito imperiale, abituato alla vittoria, fu costretto a ripiegare in una disordinata fuga. L’imperatore di Svevia in persona, il potente Barbarossa, se desiderava trovare un luogo sicuro per riposare e riorganizzare le sue forze, dovette umiliarsi e rifugiarsi nella fedele città di Pavia, un baluardo della sua autorità in terra italiana. Seguirono sei lunghi mesi di un assedio spietato e implacabile, una prova di resistenza ai limiti della sopportazione umana. Ma Alessandria, pur stremata dalla fame, dalla sete e dalla costante minaccia, non cedette. Anzi, con una tenacia sorprendente, riuscì a piegare e infine a sconfiggere il formidabile Barbarossa.
Quel “mucchio di strame”, com’era stata dispregiativamente soprannominata la città, dimostrò un amore irriducibile per la libertà, un desiderio inestinguibile di autodeterminazione. Con la sua coraggiosa resistenza, Alessandria gettò il seme fecondo che avrebbe portato alla storica vittoria di Legnano (29 maggio 1176), un trionfo dei Comuni italiani contro il potere imperiale.
Tuttavia, la città di Alessandria, nonostante il suo valore e il suo sacrificio, fu mal ricompensata per la sua eroica difesa. La Pace di Costanza (25 giugno 1183) , pur segnando nei tavoli diplomatici la conclusione della lunga e sanguinosa lotta tra i Comuni italiani e Federico I, e pur riconoscendo l’esistenza e l’autonomia di entrambi i contendenti, portò con sé amare delusioni per Alessandria, messa un po’ all’angolo e destinata a urtarsi con troppi ostacoli.
Alessandria stessa, tormentata dalla paura di subire ulteriori rappresaglie, terrorizzata dalla prospettiva di cadere sotto il giogo del potente e invadente Monferrato, si vide costretta ad accettare una dolorosa offerta dell’imperatore: protezione, in cambio di sudditanza. Un patto faustiano che la legava mani e piedi all’autorità imperiale. E, come sigillo di questa servile e umiliante catena, Alessandria dovette rassegnarsi a riaccettare il nome imperiale di Cesaria, un marchio di sottomissione che offendeva l’orgoglio dei suoi cittadini, poiché quando un sogno finisce, è anche molto duro tornare alla realtà. Resta amaro lo sconforto.
Da una parte era vigente unicamente lo sgomento, e dall’altra dominavano la minaccia e la prepotenza. A che era dunque servito tutto il sangue sparso dagli alessandrini sulle mura inviolate della città? A che era valsa la loro eroica resistenza, la loro lotta disperata per la libertà? A che era servito il sacrificio di tante vite, l’eroismo silenzioso di chi aveva dato tutto per la sua città? Ancora una volta, le alleanze e le manovre politiche, il cinico gioco degli apparati di potere tra i grandi della terra, si dimostravano insensibili al cruento sacrificio e alla volontà dei cittadini.
La storia, spesso, si ripete e attualmente non mancano gli esempi: i piccoli eroi vengono dimenticati, calpestati dagli interessi dei potenti, e il loro sangue versato sembra vano di fronte alla spietata realpolitik. La lezione di Alessandria è una lezione amara ma necessaria: la libertà va conquistata e difesa ogni giorno, e la vigilanza è il prezzo eterno della democrazia. Dopo aver assaporato una parvenza di autonomia, sebbene circoscritta e fragile, la città, desiderosa di governarsi con maggiore libertà, si ritrovò nuovamente soggiogata. Il giogo pacifico, apparentemente meno cruento di una guerra aperta, non alleviò la sensazione di oppressione e l’umiliazione di essere governati dagli imperiali.
Per ben quattordici lunghi anni, questa sottomissione ingombrante e estranea persistette, un periodo che segnò profondamente la coscienza collettiva. Tuttavia, l’aver tradito lo «spirito della resistenza», quell’anelito all’indipendenza e alla libertà che aveva animato i loro padri, non si tradusse in prosperità o fortuna. Anzi, sembrò quasi un rantolo agonico e una punizione per la loro mancanza di audacia.
Pure Valenza, città a rimorchio e subalterna, con le sue miserie e le sue contraddizioni, ritornò alla sudditanza dell’imperatore, sottomettendosi nuovamente al suo dominio. Anch’essa aderì alla Lega Lombarda e partecipò, in modo spavaldo e un po’ folcloristico, alle lotte comunali del tempo ma, con una «chiarezza madornale» e coerente come i cavoli a merenda, fece dietrofront e cambiò talune volte schieramento (svolta e contro-svolta quasi illusoria), incapace di comprendere pienamente la realtà. Una banderuola per ragioni d’opportunismo e, innanzi tutto, a causa dei contrasti interni tra i guelfi e i ghibellini locali (solo i potenti Sannazzaro erano fieri alleati dell’Impero e sempre pronti alla restaurazione).
Contemporaneamente, mentre la fame e la peste, flagelli biblici, si abbattevano su tutta la zona, seminando morte e disperazione tra la popolazione già provata, alcuni conterranei, spinti da un fervore religioso e dalla promessa di gloria, si travestirono da crociati. Guidati dal marchese di Monferrato, Guglielmo V, l’uomo d’armi esperto e ambizioso, ormai schierato dalla parte dei Comuni, partirono per la Terrasanta con l’obiettivo di riconquistare i luoghi sacri alla cristianità.
In quelle terre lontane, si consumò uno scontro decisivo: la battaglia di Hattin, il 4 luglio 1187. In quella giornata funesta, il Saladino, stratega astuto e potente, inflisse una sonora sconfitta ai cristiani, segnando inesorabilmente l’inizio della fine del Regno crociato e aprendo la strada alla riconquista islamica di gran parte della Palestina. La notizia di questa disfatta, giunta in madrepatria, oltre al clima funereo per i conterranei caduti, alimentò ulteriormente l’incertezza e il pessimismo generale.
Alla morte di Federico Barbarossa, suo figlio Arrigo VI, desideroso di consolidare il proprio potere e di ricompensare la fedeltà dei suoi alleati, fece un dono al marchese Bonifacio di Monferrato, figlio di Guglielmo V, di alcune terre fertili e strategiche situate attorno alla città di Alessandria. Questo gesto, percepito come una provocazione e una minaccia alla loro autonomia, seguito da svaghi liquidatori e da reciproci vituperi, indispettì profondamente gli alessandrini.
Accecati dalla rabbia e dal desiderio di vendetta, essi aggredirono la monferrina città rivale, Casale, in un impeto di violenza incontrollata. Colti alla sprovvista dalla reazione rivale, gli alessandrini furono messi in fuga, subendo indigeste perdite. Questa sconfitta umiliante acuì nuovamente le tensioni tra le due città e segnò un nuovo capitolo nel loro rapporto conflittuale. Da questo primo scontro ebbero inizio le ostilità dirette e le disgrazie tra Alessandria e Casale, sino a giungere alla terribile pietosa vicenda della distruzione di Casale ad opera degli alessandrini (alleati alle repubbliche di Milano, Vercelli ed Asti) nel 1215. Nel frattempo, Valenza era stata venduta nel 1207 a Pavia da Guglielmo VI diventando territorio nemico di Alessandria e dei suoi alleati. Uno scenario sempre più complesso che non prometteva niente di buono.
Già nel giugno del 1199, mettendo a freno il proprio scetticismo, in un campo in prossimità di Valenza, in località «Motta di Grana?», il marchese mecenate Bonifacio I di Monferrato degli Aleramici (1150-1207) e suo figlio Guglielmo VI (1173-1225) giurarono di accettare i patti di intesa ai consoli di Milano e di Piacenza nella discordia tra Alessandria, Casale, Asti e Vercelli (forse è una parte della contorta pace di Milano). Nella circostanza, facendosi più nemici che amici (se mai li avessero avuti prima), erano soggetti in campo i seguenti autorevoli diplomatici valenzani: Ogerius, capitaneus de Valença, Alexius de Valentia, importante arbitro-giudice dell’epoca, Ansalsus de Valentia e Ferrarius de Valentia, capitanius agli ordini del Marchese di Monferrato. Al di là del gioco delle parti con i suoi assunti, però, la pace tra i bellicosi, che pronti a mettersi di traverso non si fidavano l’uno dell’altro, durerà, come visto, assai poco.