Comellini: “Disabilità, il lavoro come diritto e motore di crescita: ecco la sfida”
"Oggi, la politica non è più solo chiamata a scrivere le leggi sui diritti, ma a renderle vive, efficaci e automatiche nella vita quotidiana dei cittadini"
ROMA – Francesco Alberto Comellini opera come tecnico e consulente nel campo delle politiche per la disabilità. La sua funzione principale è tradurre le esigenze di queste persone in proposte normative e amministrative, interfacciandosi con i decisori politici.
Dottor Comellini, le “rubo” una sua citazione: “Le politiche per l’inclusione delle persone con disabilità, se restano sulle pagine dei giornali, non servono a nessuno”. A che punto siamo, nel nostro Paese?
Siamo in una fase di straordinaria maturità per il nostro Paese, un punto di svolta dove la politica ha l’opportunità di dimostrare la sua più alta funzione: quella di ascoltare la società e trasformare i problemi concreti in soluzioni per tutti. Oggi, la politica non è più solo chiamata a scrivere le leggi sui diritti, ma a renderle vive, efficaci e automatiche nella vita quotidiana dei cittadini. La ragione di questa mia visione positiva risiede proprio negli spunti che emergono dal basso, dal territorio ma anche dalle aule di tribunale.
Prendiamo due recenti esempi emblematici. La sentenza 94/2025 della Corte Costituzionale sulle pensioni di invalidità che non deve essere vista come una sconfitta per il legislatore, ma come un’indicazione preziosa: ci ha mostrato la necessità di garantire l’integrazione al minimo a prescindere dal sistema di calcolo. Ora la politica può raccogliere questa indicazione e fare un passo in più, creando un meccanismo automatico che sollevi i cittadini da ulteriori passaggi burocratici e complicate richieste all’Inps. Allo stesso modo, la vicenda dei genitori di uno studente con disabilità che si erano rivolti al Tar del Lazio che ha risposto con anni di ritardo è un segnale potente (Sentenza 15266/2025). Un genitore non dovrebbe mai essere costretto a una battaglia legale per far rispettare il Pei, che è già legge. La politica ha qui l’occasione di intervenire non per correggere un giudice, ma per perfezionare il sistema, introducendo norme che garantiscano il rispetto del diritto allo studio fin dal primo giorno, rendendo di fatto impensabile il ricorso a un tribunale e, qualora il ricorso fosse inevitabile, garantire una corsia preferenziale e accelerata, trasformando l’istanza di prelievo, per le sole controversie attinenti all’attuazione del Pei, da atto discrezionale a provvedimento dovuto e vincolato per il Presidente del Tar.
Ecco perché il momento è positivo: la politica ha oramai a disposizione diagnosi precise sui punti deboli del sistema e può agire con interventi mirati, trasformando le storie di battaglie individuali delle persone con disabilità in diritti automatici per l’intera collettività. È il passaggio decisivo da un’inclusione proclamata a un’inclusione reale, semplice e garantita.
Quali sono le richieste più pressanti che arrivano dal mondo della disabilità?
Le istanze sono innumerevoli, ma se dovessi sceglierne una che le riassume tutte, direi: il lavoro. Non solo come mezzo per conquistare indipendenza economica, ma come strumento fondamentale per affermare il proprio valore, la propria dignità e per mettere a frutto competenze e abilità uniche. Il lavoro è la più alta forma di inclusione possibile, perché trasforma una persona da assistita a protagonista attiva della società. Questa richiesta oggi non è più solo un appello alla giustizia sociale, ma un’opportunità strategica che l’Italia deve cogliere ancor meglio di come già stia facendo.
Di fronte a una sfida demografica che ci impone di non sprecare neanche un talento, la risposta non può essere lasciata al caso o a pochi esempi virtuosi, ma deve essere quella di un’azione proattiva e coraggiosa, basata su un patto di corresponsabilità di tutti gli attori in gioco. La politica ha il potere di innescare questo cambiamento. Certamente il ruolo della politica centrale è fondamentale per dare l’indirizzo, ma è l’azione della politica territoriale a fare la vera differenza. Regioni e Comuni, per la loro vicinanza ai cittadini con disabilità, conoscono i loro bisogni reali, possono dialogare direttamente con le associazioni del terzo settore, con le scuole e con le imprese del territorio, e cucire su misura le soluzioni più efficaci, trasformando le strategie nazionali in opportunità concrete. Il mondo della formazione, dalla scuola all’università, può così diventare il vivaio dove coltivare i talenti, costruendo un ponte solido verso le imprese attraverso un orientamento che non si limita a informare, ma ispira e crea connessioni reali. Le aziende, a loro volta, sono chiamate a guardare oltre l’obbligo delle quote di legge per cogliere l’enorme vantaggio competitivo che deriva da un ambiente di lavoro ricco di prospettive diverse. In questa missione condivisa, le nuove tecnologie e l’Intelligenza Artificiale non sono un’opzione, ma i nostri più potenti alleati.
L’innovazione ci offre strumenti straordinari per abbattere le barriere, personalizzare i supporti e creare nuovi spazi di lavoro flessibili e qualificati, abilitando competenze e aprendo porte che un tempo erano chiuse. Il lavoro per le persone con disabilità non deve essere un traguardo concesso, ma un diritto vissuto, alimentato dal potenziale di ogni persona e accelerato dall’innovazione. Credo sia una scelta di civiltà e, soprattutto, la più intelligente delle strategie per la crescita di tutta la comunità.
Nel 2024 le sole pensioni di invalidità civile sono state 3.414.007, con un importo medio di 491 euro – appena 10 euro in più rispetto al 2023 – e con 116.053 trattamenti aggiuntivi rispetto al 2023, che hanno comportato una maggiore spesa di 90.134.723 euro. Di fronte a queste cifre, e sulla base del trend di crescita della spesa, il peso complessivo della spesa sul Pil al 2050 appare realistico. La domanda allora è inevitabile: quale progetto politico può essere avviato per correggere in modo strutturale, e non demagogico, il sistema pensionistico e quello dell’assistenza alle persone con disabilità?
La recentissima pronuncia della Corte Costituzionale sulle pensioni di invalidità conferma che la spesa è destinata ad aumentare, rendendo non più rinviabile una riforma. Di fronte a un sistema di assistenza e previdenza che è un cantiere perennemente aperto, un progetto politico di riforma strutturale non può più basarsi su ritocchi parziali. Deve invece rispondere con una visione d’insieme alle grandi sfide del Paese, evidenziate con chiarezza dall’Istat, dalla Banca d’Italia e, soprattutto dalla Commissione per i Livelli Essenziali delle Prestazioni, presieduta dal professor Sabino Cassese.
I dati ci parlano di un’Italia diseguale e demograficamente fragile, il cui modello di welfare necessita di essere ripensato per garantire sostenibilità e coesione. Il Governatore della Banca d’Italia nella sua relazione annuale insiste sulla necessità di riforme che aumentino la partecipazione al lavoro e l’efficienza della spesa pubblica per sostenere la crescita, mentre la Commissione Lep denuncia i profondi divari territoriali che impediscono la garanzia uniforme dei diritti sociali fondamentali. In questo contesto, la risposta non è tagliare, ma investire in modo più intelligente, trasformando un costo in un motore di sviluppo. La pietra angolare di questa rivoluzione è già stata posata con il Decreto Legislativo 62/2024, che introduce l’accertamento unico della disabilità e pone al centro il “Progetto di Vita”.
Il passo successivo e cruciale è la creazione di un’infrastruttura tecnologica che renda questo progetto concreto e operativo. La normativa stessa, in particolare all’articolo 16, prevede già le fondamenta per un sistema informativo integrato, una sorta di “Fascicolo Elettronico del Progetto di Vita”, stabilendo l’interoperabilità tra le banche dati dell’Inps e il Fascicolo Sanitario Elettronico. Questo sistema, che deve ancora andare a regime, è essenziale per avere un quadro unico della persona. Tuttavia, la sua piena efficacia dipende da un passo ulteriore: rendere interoperabili anche le banche dati di Comuni e Regioni. Ad oggi, infatti, non esiste una mappatura nazionale unica delle risorse territoriali per le disabilità. La vera sfida è far sì che la valutazione dei bisogni della persona si incroci con una mappatura puntuale e in tempo reale delle risorse realmente disponibili e accessibili in quel preciso territorio. Realizzare questa infrastruttura informativa completa è il presupposto per superare i divari territoriali e garantire i Livelli Essenziali delle Prestazioni. Una volta che il sistema sarà in grado di ‘conoscere’ sia la persona che le risorse del territorio in cui vive, potremo finalmente ridisegnare le prestazioni economiche secondo un modello che definisco “duale”.
un’idea che trova oggi un solido fondamento normativo nel percorso già tracciato dalla Legge Delega 227/2021 che, incaricando il Governo di superare la frammentazione delle prestazioni, ne ha di fatto delineato i presupposti. L’approccio duale a cui penso si basa su una distinzione netta e valorizzante. Da un lato, un ‘Assegno di Disabilità’ universale, slegato dal reddito, che compensa gli svantaggi oggettivi e unifica la giungla di indennità attuali. Dall’altro, una ‘Prestazione di Inclusione Attiva’, che è la vera evoluzione della pensione di invalidità. Non più un reddito che certifica l’inattività, ma uno strumento flessibile che investe sull’autonomia: per chi non ha capacità lavorativa garantisce un sostegno pieno; per chi può lavorare, si trasforma in un’integrazione dinamica e cumulabile, studiata per rendere il lavoro sempre conveniente. Questo progetto trasforma la spesa per la disabilità da un capitolo di costo a un investimento strategico sulla coesione sociale e sulla crescita, valorizzando il potenziale di ogni persona come risorsa per l’intera comunità.
L’Italia, oggi, è un Paese inclusivo e accogliente per le persone con disabilità?
L’Italia oggi è un Paese a due velocità: da un lato, abbiamo un impianto normativo sull’inclusione tra i più avanzati al mondo; dall’altro, viviamo una realtà quotidiana dove questi diritti faticano a diventare concreti. La vera sfida per diventare un Paese realmente inclusivo e accogliente non si gioca più a Roma con nuove leggi, ma sul territorio, nel ruolo che ogni singolo Comune e Regione decide di assumere. La vera accoglienza, infatti, si misura nella vita di tutti i giorni: in un trasporto pubblico realmente accessibile, in una scuola capace di fornire il giusto sostegno, in un’impresa che assume per competenza e non per obbligo, in un servizio sanitario che risponde ai bisogni. Questi non sono concetti astratti, ma il risultato di scelte politiche e amministrative fatte a livello locale. Oggi, la vera frontiera dell’inclusione è la valorizzazione del territorio.
Un Comune che mappa le proprie barriere e investe per abbatterle, una Regione che potenzia l’orientamento al lavoro per i suoi giovani con disabilità, un ambito territoriale che costruisce un ‘Progetto di Vita’ basato sui servizi realmente disponibili, sono i veri motori del cambiamento. L’Italia diventerà un Paese accogliente quando questo impegno capillare degli enti locali, i più vicini ai bisogni dei cittadini, diventerà la norma e non l’eccezione. La nostra qualità di Paese inclusivo si decide qui, nella concretezza delle nostre comunità.
La figura del Disability manager all’interno di enti e Comuni è ancora attuale? In che modo può evolvere per fornire risposte sempre più puntuali?
Sì, la figura del Disability Manager non solo è attuale, ma diventa oggi più che mai strategica, quasi un presidio di garanzia in un sistema complesso. Ma occorre fare una precisazione, il termine “Disability Manager” non esiste in nessuna norma di legge, è di fatto il ‘Responsabile dei processi di inserimento delle persone con disabilità’ definito dall’articolo 39-ter del decreto legislativo sul pubblico impiego, il 165 del 2001 come potenziato dall’articolo 6 del decreto legislativo 222 del 2023, che peraltro è emanato in conformità al dettato della legge delega sulla disabilità del 2021 ed introduce all’articolo tre la figura del dirigente per la piena accessibilità fisica e digitale, figure che possono coesistere all’interno di una organizzazione pubblica
Nel settore privato, invece, tali figure non derivano da un obbligo di legge specifico, ma la loro eventuale adozione è una scelta strategica e una buona prassi che sempre più aziende adottano. Per semplicità descrittiva, comunque ci riferiamo ad una unica figura, il Disability Manager della Pubblica Amministrazione che, di fronte a una burocrazia che spesso diventa essa stessa una barriera, è l’agente di cambiamento che può riattivare il volano dell’inclusione, traducendo i diritti sanciti dalle leggi in prassi quotidiane.
Tuttavia, il suo ruolo si è evoluto in modo esponenziale. Non è più solo una figura di buona volontà o un esperto di risorse umane. Con l’entrata in vigore di normative complesse come il Decreto Legislativo 222/2023 sull’accessibilità, che impone obblighi stringenti per tutte le pubbliche amministrazioni, le sue responsabilità sono cresciute a dismisura. Per la delicatezza del ruolo e per il peso delle responsabilità civili e penali in caso di inadempienza, il Disability Manager può essere paragonato al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (Rspp) in materia di sicurezza sul lavoro, che come sapete è una figura obbligatoria in tutte le strutture pubbliche o private e che peraltro nella propria “missione” deve assicurare la sicurezza anche dei lavoratori con disabilità. Il Disability Manager, come l’Rspp, non si limita a un’azione di consulenza, ma diventa il garante di un processo, in questo caso per l’inclusione e la piena accessibilità, che, se gestito male può esporre l’ente o l’azienda, e lo stesso Disability Manager, a contenziosi e sanzioni.
Questa evoluzione impone una presa di coscienza: una figura di tale importanza non può essere improvvisata, né nel settore pubblico, né, seppure su base volontaria, in quello privato. Le competenze richieste sono vaste e trasversali, spaziando dal diritto del lavoro (L. 68/99) alla sicurezza sul lavoro (anche per la gestione degli accomodamenti ragionevoli), dalla psicologia del lavoro per favorire l’integrazione nella struttura produttiva, fino alle nuove e specifiche competenze tecniche sull’accessibilità fisica e digitale solo per citarne alcune. La differenza cruciale è che qui non parliamo solo di procedure tecniche, ma della gestione del capitale umano nella sua complessità. L’errore, quando si tratta di persone, ha conseguenze profonde e la professionalità non è un’opzione, ma un dovere.
Di fronte a questa complessità, la vera urgenza che mi sento di segnalare alla politica è quella di avviare un grande piano formativo nazionale, dotato delle necessarie risorse economiche, sia per il settore pubblico che per quello privato che assicuri un livello di preparazione ai Disability Manager di alto profilo accademico. È impensabile affidare responsabilità così elevate senza un percorso di qualificazione e certificazione rigoroso, che definisca chiaramente i requisiti minimi e garantisca un aggiornamento continuo, proprio come avviene per le figure professionali in ambito sicurezza. Investire nella formazione di Disability Manager altamente qualificati non è un costo, ma la condizione indispensabile per garantire che l’inclusione sia gestita con competenza, riducendo i rischi per le aziende e per le Amministrazioni pubbliche e, soprattutto, fornendo finalmente quelle risposte puntuali e concrete che le persone con disabilità, siano esse cittadini utenti di servizi pubblici o lavoratori, hanno il diritto di attendersi.
Lei, nel 2017, fu consulente per la legge sul caregiver familiare: una figura che assume sempre più centralità al giorno d’oggi. Come si possono aiutare ulteriormente i nuclei che devono supportare un familiare?
Per affrontare in modo organico e risolutivo il tema del sostegno ai nuclei familiari, è fondamentale partire da una precisazione terminologica non solo formale, ma sostanziale: è essenziale utilizzare sempre la definizione di “caregiver familiare”. Usare il termine generico “caregiver” è infatti fuorviante, perché sposta l’asse del compito di cura al di fuori del contesto familiare, rischiando di confondere una figura che nasce da un legame affettivo con quella di un lavoratore o di una lavoratrice dell’assistenza, e di conseguenza di privare la famiglia delle misure specifiche che le sono dovute. Sancito questo, è indispensabile scardinare un equivoco di fondo per abbracciare un nuovo principio.
Se la filosofia della legge delega sulla disabilità è, giustamente, quella di mettere al centro la persona in quanto tale, a maggior ragione il caregiver familiare va anch’esso messo al centro come individuo, con le sue complessità, i suoi bisogni e i suoi diritti, che devono trovare una risposta nel sostegno pubblico. È tempo di superare definitivamente il concetto, che molta letteratura e troppa legislazione regionale o proposte di legge passate e presenti hanno erroneamente sostenuto, del caregiver familiare come un ‘volontario’. Il suo non è un atto di volontariato, ma un’imprescindibile attività di cura dettata dalla propria realtà familiare e dalla carenza di alternative, che rappresenta un valore inestimabile per l’intera collettività. Partendo da questo principio, oggi non serve disperdersi nell’iter di una nuova legge-quadro che si aggiungerebbe alle molte già in discussione, ma serve un approccio pragmatico che metta a sistema l’esistente, come peraltro indicato anche dal Ministro Locatelli.
Per questo, il primo passo non può essere l’ennesimo iter legislativo complesso, che verrebbe percepito come un rinvio, ma un provvedimento a carattere amministrativo, di immediata efficacia. Questo atto deve avere un obiettivo non più rinviabile: definire con esattezza la platea dei caregiver familiari. Senza un censimento nazionale, ogni intervento, inclusa la ripartizione dei fondi, resta basato su stime e quindi con il rischio di dare risposte insufficienti o con una copertura parziale, se non minima, della platea reale. Questo processo di identificazione deve poi superare l’attuale criterio che lega il sostegno alla gravità della persona assistita. Deve invece partire da un requisito oggettivo, la convivenza stabile, per poi procedere con una analisi multidimensionale e multidisciplinare del caregiver familiare stesso, per definirne i bisogni e l’impatto del lavoro di cura sulla sua vita.
L’infrastruttura di rilevamento dei dati prevista dall’articolo 16 del D.Lgs. 62/2024 va quindi allargata, integrando la valutazione del caregiver familiare con una mappatura puntuale di ciò che il territorio mette in campo per supportarlo. Solo una volta definita la platea attraverso questo rigoroso processo, si potrà passare alla fase successiva: una legge annuale sul caregiver familiare che stanzi risorse adeguate alla platea ai loro bisogni e, come richiesto da tutte le forze politiche, distinte e separate da quelle per la disabilità o la non autosufficienza, riconoscendo finalmente che sostenere chi si prende cura non è un costo, ma un investimento sulla tenuta dell’intero sistema di welfare.
Il Terzo settore e il mondo del volontariato, nel nostro Paese, sono un pilastro della rete sociale: le istituzioni come possono affiancarle nel loro lavoro?
Il Terzo Settore e il mondo del volontariato sono un pilastro insostituibile della nostra rete sociale. Conosco personalmente molti presidenti di grandi associazioni, così come piccole realtà radicate sul territorio che, spesso con risorse nulle o limitatissime, sostengono con forza i processi di inclusione. La loro vera forza è una capillarità e un’eterogeneità che abbraccia le istanze più profonde del Paese reale. Tuttavia, il modo in cui le istituzioni possono affiancarli deve evolvere, passando da una logica di mera sussidiarietà a una di partnership strategica pubblico-privata. Un modello di questa evoluzione è l’Osservatorio Permanente sulla Disabilità (Osperdi), un ente del Terzo Settore che affianca alla sua missione istituzionale un’attività di studio e ricerca. La sua finalità è il miglioramento della qualità della vita delle persone con disabilità e dei loro nuclei familiari, analizzando le problematiche generazionali, socio-assistenziali ed economiche.
L’obiettivo è elevare i livelli di cittadinanza attiva e coesione sociale, favorendo la partecipazione e l’autonomia per proporre l’adozione di politiche pubbliche condivise. Il suo Comitato Tecnico Scientifico, di cui faccio parte insieme a esponenti del mondo accademico, politico e istituzionale, mette a sistema un bagaglio di conoscenze diverse. Questa collaborazione è un esempio di come competenze ed esperienze possano essere poste al servizio della collettività per favorire un concreto cambio di paradigma: considerare la disabilità non più un costo, ma una risorsa per l’intera comunità. Partendo da questo modello, le istituzioni possono affiancare il Terzo Settore in tre modi concreti.
Primo, ascoltare e co-progettare, non solo delegare. Le istituzioni devono riconoscere il Terzo Settore come un interlocutore paritario nella fase di programmazione, istituendo tavoli di co-progettazione permanenti. In un certo senso questo agire, che tuttavia deve ancora trovare una piena attuazione e che dovrebbe essere un modus operandi codificato, è delineato proprio dall’articolo 5 del decreto legislativo 222 del 2023 il quale dispone che i rappresentanti delle Associazioni interagiscano con le pubbliche amministrazioni per la formazione della sezione del Piano integrato di attività ed organizzazione che riguarda le persone con disabilità. Questo ci conferma che le politiche costruite insieme a chi vive quotidianamente i problemi e ne studia le soluzioni sarà inevitabilmente più efficace. Dal canto suo, la politica è chiamata ad accogliere le istanze del Terzo Settore non come una critica, ma come un contributo strategico. Ascoltare chi opera sul territorio significa intercettare i bisogni reali della collettività e, in ultima analisi, orientare le scelte verso soluzioni più efficaci, rafforzando il legame di fiducia con i cittadini.
Secondo, investire in conoscenza, non solo in servizi. Il Terzo Settore è un giacimento immenso di dati ed esperienze. Affiancarlo significa commissionare ricerche e utilizzare le analisi prodotte da osservatori specializzati per orientare le scelte legislative in un’ottica di “evidence-based policy”. Infine, semplificare e responsabilizzare, non solo finanziare. Il sostegno più concreto è creare un ambiente favorevole, riducendo la burocrazia e superando la logica dei bandi annuali a favore di finanziamenti pluriennali che permettano una programmazione seria. A fronte di finanziamenti strutturati, però, è indispensabile introdurre sistemi di controllo e monitoraggio altrettanto severi e puntuali. Ogni euro pubblico speso deve essere collegato a risultati effettivamente misurabili, non solo in termini di raggiungimento degli obiettivi fissati, ma soprattutto in termini di effettivo miglioramento della qualità della vita dei cittadini interessati dalle azioni messe in campo. Questa logica di accountability è il cuore di una partnership matura, dove la fiducia si basa sulla trasparenza e sull’impatto reale degli interventi. A mio parere il modo più efficace per le istituzioni di affiancare il Terzo Settore è riconoscerne con maggior forza e incisività il ruolo di partner strategico nella governance delle politiche sociali: non solo come braccio operativo, ma come cervello collettivo capace di analizzare, proporre e innovare, per raggiungere insieme l’obiettivo di un’Italia realmente inclusiva, anche e soprattutto per le persone con disabilità.