Origine del territorio valenzano
L'approfondimento del professor Maggiora
VALENZA – Dove ora si ergono le rigogliose e sinuose colline del Monferrato, un mosaico verdeggiante di vigneti ordinati e castelli secolari che narrano storie di nobiltà e potere, un tempo, in un’epoca remotissima, alcuni milioni di anni di anni fa, esisteva un paesaggio completamente diverso. Al posto dei dolci declivi e dei borghi pittoreschi, si estendeva un’unica, vasta e inquietante distesa d’acqua salmastra: il mare primordiale. Un mare immenso culla di vita ancora sconosciuta e teatro di forze geologiche inimmaginabili.
Il nostro territorio, quello che oggi chiamiamo Monferrato, iniziò a delinearsi e a emergere dalle profondità marine solo alla fine del periodo terziario e all’inizio del periodo quaternario, un lasso di tempo segnato da sconvolgimenti cataclismatici. Furono le grandi scosse telluriche, i tremori titanici della terra che si assestava, a plasmare lentamente il futuro paesaggio. Questi eventi drammatici furono parte integrante dell’impressionante fenomeno geologico dell’orogenesi, la forza titanica che, come un fabbro cosmico, forgiò l’imponente arco alpino occidentale. La nostra regione, allora un embrione di terraferma, si presentava come un immenso e profondo golfo, un’insenatura tentacolare delimitata a occidente dalle Alpi, catene montuose ancora giovani e vigorose, appena emerse dalle acque torbide del mare primordiale. Le vette, ancora roride e lucenti per l’acqua salata, testimoniavano il susseguirsi di ciclopici terremoti che avevano scosso la terra, sollevando le montagne verso il cielo.
Le acque di questo golfo primordiale del mare Padano erano perennemente agitate, battute con furia dalle collere dei venti. Gli sconvolgimenti orogenetici avevano amplificato la potenza e la durata delle tempeste, rendendole fenomeni inimmaginabili nella loro intensità. Le onde, alte come montagne liquide, si infrangevano con violenza inaudita contro i fianchi scoscesi e impervi dei monti nascenti, montagne che le piogge incessanti flagellavano per settimane intere, erodendo la roccia e scolpendo canyon profondi.
Il sole, astro immutabile, sorgeva ogni giorno portando il suo dono di luce, ma la sua carezza era tutt’altro che gentile. La luminosità era aspra, bruciante, a volte insopportabile, intensificata dalla rifrazione sull’acqua e dalla mancanza di vegetazione a proteggere la terra. Gli alberi, in difficoltà ad attecchire in un ambiente così ostile, morivano a legioni, consumati dallo sguardo infuocato dell’astro, lasciando spazio a paesaggi desolati e brulli. In questo ambiente primordiale e ostile, pullulava la vita, sebbene in forme radicalmente diverse da quelle che conosciamo oggi.
Strani e giganteschi animali, creature ancestrali e misteriose, si muovevano con agilità nelle acque agitate e sulle ripide terre emerse. Esseri marini colossali solcavano gli abissi, mentre rettili enormi e creature alate dominavano la terra e il cielo, testimoni silenziosi della nascita di un mondo. Un mondo che, milioni di anni dopo, sarebbe diventato il Monferrato, un tesoro di bellezza e storia. Profondamente immerso nel tempo primordiale, un paesaggio alieno si dispiegava sotto un cielo turbolento. Il clima, imprevedibile e violento, oscillava tra calore soffocante e tempeste improvvise, erodendo la terra e plasmando le coste in un perpetuo divenire. La vita, in quel brodo primordiale, pulsava con una forza bruta e incontaminata, ignara del futuro avvento dell’umanità, ancora un miraggio lontano, un’eco silente nel grembo del tempo.
Millennio dopo millennio, la lenta danza della geologia continuava la sua opera. Quell’angolo di mare, ipotizzato da alcuni studiosi come un antico prolungamento dell’Adriatico, assisteva a un graduale mutamento. Sul suo fondo, strato dopo strato, si accumulavano i sedimenti, testimonianze silenziose di un’epoca perduta: fossili di creature marine, conchiglie iridescenti, carcasse di animali preistorici, alghe fossilizzate in intricate trame. A questi resti organici si mescolavano i detriti inorganici, il risultato incessante dell’erosione marina che, come un artista paziente, scolpiva e modellava la costa. La profondità di quelle acque diminuiva impercettibilmente, mentre forze titaniche si risvegliavano dalle viscere della terra.
Lenti e inesorabili movimenti tellurici facevano emergere dal mare nuove catene montuose, meno imponenti e più accessibili rispetto alle maestose Alpi e agli Appennini occidentali. Queste isole nascenti, sentinelle di terraferma in un oceano sconfinato, offrivano un nuovo punto di riferimento, un’ancora per la vita che cercava di prosperare in un ambiente ancora ostile. Attorno a questi nuovi lembi di terra, si depositavano, con il passare del tempo, strati geologici variegati, mosaici complessi di minerali diversi e detriti fossili e organici. La stratificazione, una narrazione silenziosa scritta nella roccia, custodiva la memoria di ere geologiche complete, le storie segrete di creature estinte e di ecosistemi scomparsi.
Nelle profondità oscure delle acque, agitate da correnti impetuose, scosse da eruzioni vulcaniche sottomarine e sconvolte da sommovimenti tellurici, si preparava il palcoscenico per un nuovo capitolo della storia. In quel caos primordiale, in quel turbinio incessante di forze naturali, nel buio profondo delle acque ribollenti, stava prendendo forma, lentamente ma inesorabilmente, il nostro territorio, la terra che un giorno avremmo chiamato casa.
Sulla battigia, abbandonati dalla marea calante, si possono ammirare conchiglie di ogni forma e colore, testimonianza della vita pulsante che si cela sotto la superficie del mare. Tra questi tesori naturali, si trovano sia conchiglie intatte, spirali perfette che un tempo proteggevano molluschi, sia frammenti levigati dalle onde, piccoli mosaici di madreperla che brillano al sole. Accanto alle conchiglie fresche, la sabbia custodisce anche fossili marini, silenziosi testimoni di un passato remoto, quando il mare ricopriva terre ora emerse. Questi reperti, spesso pietrificati in forme bizzarre, raccontano storie di creature marine estinte, offrendo uno sguardo affascinante sulla lunga evoluzione della vita sulla Terra.
Nella tranquilla zona di Pecetto di Valenza, precisamente nei pressi della storica Cascina Guarnera (oggi riconosciuta come Geosito La Guarnera), adagiata sulle dolci pendici occidentali del rilievo collinare Bric Fea, recenti scoperte hanno portato alla luce un tesoro di fossili e minerali d’indubbia origine marina. Questi reperti testimoniano un passato remoto, quando l’area era lambita, anzi, immersa, dalle acque del Mare Padano, un vasto specchio d’acqua che dominava l’intera regione.
La storia di questo territorio, tuttavia, è segnata da profondi e radicali cambiamenti. All’alba del periodo Quaternario, in seguito a sconvolgimenti geologici di portata immensa, la presenza del Mare Padano divenne un ricordo sbiadito. Le acque si ritirarono, lasciando dietro di sé immensi banchi pianeggianti. Queste distese, sottoposte a forze titaniche, furono sovvertite, compresse, sospinte verso l’alto e raddrizzate da energie inimmaginabili, plasmate e deformate fino ad assumere le caratteristiche che ammiriamo oggi. Immaginate il caos primordiale: tempeste che oscuravano il cielo, il fragore degli elementi scatenati, il continuo mutamento dei confini marini. In questo scenario di potenza e distruzione, nacque questo territorio. Naturalmente, la sua fisionomia era ben diversa da quella attuale. L’impetuoso defluire delle acque, un fiume inarrestabile che trasportava con sé un carico pesante di sedimenti e detriti alluvionali, iniziò a plasmare il volto della regione, modificandolo incessantemente nel corso del tempo.
La natura friabile dei terreni, particolarmente vulnerabile all’azione erosiva dell’acqua, contribuì a scolpire un intricato labirinto di valli e vallette nel terreno appena emerso. Questo reticolo idrografico, in continua evoluzione, disegnò un paesaggio complesso e affascinante. La terra, fertile e ricca di humus, non tardò a rivestirsi di una vegetazione lussureggiante e rigogliosa. In un periodo relativamente breve, questa vegetazione si trasformò in fitte selve e impenetrabili boschi secolari, che estesero il loro manto verde su colli e dossi, nascondendo alla vista i profondi solchi scavati dalle valli, custodi silenziose di un passato lontano e tumultuoso. Questi boschi, testimoni immobili del tempo che scorre, continuano a vegliare su questo territorio, proteggendone la storia e la bellezza.
Dalle profondità silenziose del terreno selvaggio, là dove la natura regnava sovrana e incontrastata, emerse un indizio inequivocabile, un segno premonitore di un cambiamento imminente: l’orma impressa sulla terra umida, inequivocabile testimonianza del passaggio di un piede umano. Era giunto, finalmente, l’uomo, coperto di pelli, portatore di una storia millenaria e di una presenza destinata a trasformare per sempre il paesaggio circostante.
Sulla vita di questi nostri primi avi si possono ricavare notizie sulla loro alimentazione, sulle loro abitazioni, sugli strumenti usati. Per quanto riguarda il resto, dalle singole configurazioni al loro modo di rapportarsi e di esprimersi, si deve utilizzare l’immaginazione, quindi l’analisi evocativa.
Questi primi esploratori, questi pionieri dell’era antica di portata epocale, erano i Liguri, un popolo fiero e radicato, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, l’eco della loro civiltà risuona ancora nell’appellativo della moderna regione della Liguria.
La loro presenza è attestata fin dal lontano 2000 a.C., quando si insediarono nel cuore del Nord Italia e nella Francia meridionale, occupando un territorio vasto e strategicamente cruciale, tradizionalmente delimitato dalle foci del Rodano a ovest e dell’Arno a est. Nel crogiolo di questa civiltà ligure, emersero diverse stirpi, ognuna con la propria identità e il proprio retaggio. Tra queste, i Bagienni, gli Statielli e i Marici si distinsero per la loro tenacia e la loro capacità di adattamento. Furono loro a colonizzare la zona valenzana, insediandosi ben prima dell’arrivo dei Celti, con le loro intricate tradizioni, e dei Romani, con la loro ambizione di conquista e di dominio. La loro presenza silenziosa e laboriosa gettò le fondamenta per le future civiltà che avrebbero solcato queste terre.
I primi abitanti della nostra zona, di cui possediamo notizie più dettagliate e attendibili, appartenevano proprio a questa tribù: i Marici, animati da uno spirito indomito e da una sete di scoperta, osarono valicare l’imponente barriera dell’Appennino nell’era post-glaciale. Superarono vette impervie, affrontarono pericoli inenarrabili e, infine, si stanziarono a sud del fiume Po, aprendo la strada a nuove possibilità e a nuovi orizzonti. E così, nel cuore di questa regione, si consumò un incontro epocale. I Bagienni, gli Statielli e i Marici, ognuno con le proprie conoscenze e la propria identità, si ritrovarono a convivere in un crocevia di territori.
Le origini insediative di Valenza affondano le loro radici in un’area geografica ben precisa: quella compresa tra le dolci alture di Astigliano (Astilianum – Astiliano) e il confine naturale delineato da Monte Valenza, un altopiano situato nella regione di Gropella. Questa zona, caratterizzata da una posizione strategica e da risorse naturali favorevoli, si è dimostrata un polo di attrazione per le comunità umane fin dai tempi più remoti. Già in epoca pre-romana, l’insediamento originario conobbe una fase di espansione e sviluppo, testimoniando la vitalità e la resilienza di queste prime popolazioni, che di rapporti interpersonali hanno ben poco.
Cosa c’era a Pecetto di Valenza nove milioni e mezzo di anni fa? Le testimonianze di questa lontana epoca sono state trovate con gli scavi compiuti nel 1981 a Cascina Guarnera (ubicata lungo le pendici occidentali del rilievo collinare Bric Fea) ed esposte poi in visione al pubblico. Trovano posto nelle vetrine del Centro Culturale Giuseppe Borsalino di Pecetto gli scheletri fossili di pesci appartenuti a specie caratteristiche del Miocene superiore (circa 9,5 milioni di anni fa), caratterizzati da un eccellente stato di conservazione che permette di coglierne nel dettaglio anche i più piccoli particolari. Sono gli animali che vivevano nel mare dove oggi si trova Pecetto e di cui restano oggi gli affioramenti di un tipo particolare di roccia sedimentaria, i tripoli, che costituisce il risultato del lento depositarsi di gusci di organismi microscopici (foraminiferi e diatomee).
A Valenza l’area di Astigliano, oggi un’accogliente zona abitativa, cela un passato geologico affascinante. Si presume che la sua conca naturale, dolce e luminosa, fosse un tempo occupata da un lago. Questo specchio d’acqua, verosimilmente, trovava una via di scarico verso il fiume Po attraverso uno stretto passaggio naturale, individuabile in corrispondenza dell’avvallamento, dove oggi scorre la linea ferroviaria che collega Alessandria a Valenza.
L’importanza di questo lago per le prime comunità umane è ulteriormente avvalorata dall’ipotesi di un villaggio palafitticolo, fiorito sulle sue sponde tra il Neolitico e l’Età del Bronzo, ovvero tra la fine del IV e l’inizio del II millennio avanti Cristo. Il ritrovamento di frammenti di pali conficcati nel terreno, interpretati come resti delle strutture di sostegno delle palafitte sommerse, offre una tangibile testimonianza di questa presenza umana. Questi pali, realizzati con tronchi d’albero lavorati, rappresentavano le fondamenta di abitazioni sopraelevate, offrendo protezione dalle inondazioni e garantendo l’accesso alle risorse lacustri.
Sulle rive del Po, più a nord, s’insediarono anche altre tribù liguri minori quali gli Insubri, i Libui e i Gabieni. Sempre nella parte più a nord della nostra zona, alcuni gruppi distaccati di Bagienni mossi verso il Po, da loro chiamato Bodinco, prenderanno il nome di “Vicani Iadatiti” o “Vactatini” per il loro abitare i vici, cioè i villaggi bagnati dal torrente Grana, chiamato Iactum.
Se ci spingiamo ancora più indietro, grazie alla nostra macchina del tempo ideale, raggiungiamo il Paleolitico medio (120.000 – 40.000 anni fa), in un’area geografica più ampia, comprendente le zone di Bassignana, Rivarone, Montecastello, Pietra Marazzi e Pecetto, in particolare la zona di confluenza dei principali bacini idrografici del Piemonte meridionale (Po, Tanaro e Bormida), sembra che ci fosse una presenza sporadica di gruppi di cacciatori e raccoglitori nomadi.
Questi individui, appartenenti alla specie Homo sapiens neanderthalensis, si spostavano stagionalmente con ferrigna ostinazione alla ricerca di risorse alimentari, sfruttando la ricchezza faunistica e vegetale offerta da questo territorio. Il territorio in questione rivela, attraverso testimonianze inequivocabili, una frequentazione umana che affonda le sue radici nel Neolitico recente, un periodo compreso tra il 4200 e il 3500 a.C. Le tracce di questa presenza antica, disseminate nel paesaggio, suggeriscono una vita comunitaria embrionale, un’interazione primordiale irta di difficoltà tra l’uomo e l’ambiente circostante. Con il progressivo avanzare del tempo e il passaggio all’età del Rame (3500-2250 a.C.), si assiste a una significativa evoluzione demografica.
In questo agro marico-bagienno, si delinea un quadro di popolamento iniziale caratterizzato dalla nascita di villaggi stabili. Tuttavia, la coesistenza tra queste prime comunità non sembra essere stata sempre pacifica. L’ipotesi di frequenti conflitti tra i villaggi è corroborata da numerosi ritrovamenti archeologici di manufatti litologici, reperti che narrano di strumenti e armi utilizzati in scontri per il controllo delle risorse e del territorio.
La vera e propria organizzazione sociale, con strutture più complesse e forme di convivenza evolute, emerge solo durante l’età del Bronzo finale (1200-700 a.C.). In questo periodo, alcune comunità abbandonano le pianure per cercare rifugio sui pendii di Montecastello, Pecetto e Rivarone. Questa migrazione verso le alture non è casuale: la scelta di insediarsi in aree collinari e sommità dotate di una migliore visibilità sul territorio circostante riflette una strategia difensiva. Da queste posizioni privilegiate, le comunità potevano controllare i movimenti nella valle, prevenire attacchi e gestire meglio le risorse.
Infine, una nota di cautela e preoccupazione emerge, una riflessione sul futuro che guarda al passato. Ciò che sta accadendo negli ultimi decenni, con i cambiamenti climatici e le trasformazioni ambientali, sembra evocare, per chi verrà dopo di noi, analogie inquietanti con processi che hanno caratterizzato altre ere geologiche, epoche contrassegnate da rilevanti glaciazioni.
Quando questo nuovo periodo glaciale sopraggiungerà incarnando la continuità antropologica del passato, se mai sopraggiungerà, è impossibile dirlo con certezza. L’unica certezza risiede nella memoria della Terra: l’ultima glaciazione, un evento catastrofico che ha plasmato il nostro pianeta, si è conclusa circa 10.000 anni fa, un monito silenzioso sulla potenza delle forze naturali e sulla fragilità della nostra esistenza.
Questa consapevolezza dovrebbe guidare le nostre azioni, spingendoci a un uso più responsabile delle risorse e a una maggiore attenzione verso l’ambiente che ci circonda, per evitare che la storia si ripeta in forme ancora più apocalittiche.
Di risposte possibili ce ne sono tante, di certezze quasi nessuna.