La Sinistra a Valenza (prima parte)
Blog, Cultura
Pier Giorgio Maggiora  
26 Ottobre 2025
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Il saggio

La Sinistra a Valenza (prima parte)

L'approfondimento del professor Maggiora

VALENZA – Il secolo XIX fu un’epoca di rivolgimenti e lacerazioni sociali senza precedenti nella città di Valenza. Un vento di cambiamento, alimentato dall’instancabile predicazione di ideali radicali, umanitari e socialisti, spazzò via le vecchie certezze, trasformando profondamente il sistema politico e sociale cittadino. Questa nuova ondata ideologica, portata avanti da personaggi appassionati e dalla diffusione capillare di scritti spesso sovversivi, non si limitò a lambire la superficie, ma penetrò in profondità nei diversi strati della popolazione valenzana. In ogni famiglia, in ogni luogo di lavoro, tra i contadini e gli artigiani, germogliava una nuova consapevolezza, una coscienza critica che scrutava le profonde disparità e le ingiustizie sociali che affliggevano la società.

L’eco della Rivoluzione Francese, un sussurro che aveva viaggiato attraverso il tempo e lo spazio, risuonava ancora potente a Valenza. L’esperienza della Repubblica Cisalpina (1798-1814), il periodo del Direttorio-Consolato e le gesta epiche dell’era napoleonica avevano piantato un seme che, a distanza di qualche anno, trovava finalmente un terreno fertile in cui fiorire.

Le idee di libertà, uguaglianza e fraternità, un trinomio rivoluzionario che aveva scosso il mondo, avevano attecchito profondamente nell’animo dei valenzani più audaci e progressisti. Questi ideali avevano nutrito il coraggio e l’aspirazione al progresso di una generazione di uomini e donne, forgiando una coscienza civile incline alla lotta per l’affermazione dei diritti fondamentali.

Nella notte tra il 9 e il 10 marzo del 1821, una notte densa di aspettative e gravata da un’atmosfera elettrica, Alessandria si trovava sull’orlo di una tempesta. Il clima era saturo di una forte tensione, alimentata da rivendicazioni patriottiche che serpeggiavano da tempo tra la popolazione, insofferente al dominio straniero e desiderosa di un’Italia unita e libera. In questo contesto di fermento, una rivolta carbonara scoppiò ad Alessandria, cogliendo molti di sorpresa.

Alcuni, illudendosi, avevano pronosticato una sollevazione lunga e duratura, capace di scuotere dalle fondamenta l’ordine costituito. La realtà, invece, si rivelò più effimera: la rivolta fu furtiva e corta, come un lampo che squarcia improvvisamente l’oscurità per poi svanire rapidamente. Nonostante la sua brevità, l’azione degli insorti fu carica di coraggio e di significato simbolico. Essi s’impadronirono audacemente della Cittadella, il principale baluardo difensivo della città, una fortezza imponente che dominava l’orizzonte e rappresentava il potere.

Santorre di Santarosa, figura carismatica e uno dei principali esponenti dell’organizzazione dei moti piemontesi, in un gesto che sarebbe entrato nella storia, issò per la prima volta nella storia risorgimentale la bandiera tricolore, simbolo di un’Italia unita e indipendente, affiancandola alla bandiera carbonara, emblema delle società segrete che avevano sorretto la fiamma della rivoluzione. Quel tricolore, sventolando al vento sopra la Cittadella, rappresentava una promessa, un sogno audace che avrebbe ispirato generazioni di patrioti.

Contemporaneamente, a Valenza, l’esponente patriottico localmente più in vista, il comandante della Guardia Nazionale Giuseppe Gervino, un personaggio a dir poco originale e per molti versi enigmatico, veniva informato dei preparativi in corso ad Alessandria.

Gervino non era un semplice militare; era un chirurgo, dotato di un’intelligenza acuta e di un fascino particolare, circonfuso di luce mistica, di una spiritualità intensa che lo rendeva diverso dagli altri. Era un uomo dai mille volti: di volta in volta combattente ardente e salottiero raffinato, capace di disquisire di politica come di arte, un angelo sterminatore alla Saint Just, pronto a usare la sua abilità dialettica e la sua influenza per raggiungere i suoi obiettivi.

Intuendo l’importanza del momento e sentendo il richiamo della patria, Gervino decise di agire. Con la sua eloquenza e la sua capacità di persuasione, riuscì a convincere otto suoi concittadini, avventori del caffè gestito da Giovanni Morosetti, un locale frequentato da figure eccentriche e marginali. Questi individui, considerati da molti degli «scappati di casa», o presunti tali, personaggi sui generis che si aggiravano ai margini della società valenzana, trovarono in Gervino un leader e una guida. Affascinati dalle sue parole e spinti da un irrazionale desiderio di avventura, decisero di seguirlo ad Alessandria per unirsi alla rivolta.

Il gruppo, un’accozzaglia sociopatica di idealisti, sognatori e avventurieri, animati da una miscela inebriante di patriottismo, alcol e desiderio di cambiamento, stipato su di un grosso carro trainato da cavalli recalcitranti, alle tre del mattino si mise in marcia verso Alessandria. La notte era buia e silenziosa, interrotta solo dal rumore sordo delle ruote sul selciato e dai canti sommessi dei rivoluzionari improvvisati, ignari del destino che li attendeva e pronti a partecipare alla sommossa, convinti di poter cambiare il corso della storia. La loro era una missione folle e coraggiosa, un atto di ribellione contro un potere soverchiante, un tentativo disperato di dare forma al sogno di un’Italia libera e unita.

L’atmosfera era carica di aspettative e fervore patriottico quando i sostenitori delle idee libertarie si prepararono a prendere parte alla solenne promulgazione della nuova costituzione. Quest’ultima, ispirata al modello progressista della costituzione spagnola, frutto del celebre «Pronunciamento», rappresentava un faro di speranza per il popolo piemontese. Prevedeva, infatti, una significativa espansione dei diritti civili e politici, garantendo maggiori libertà individuali e collettive, e una conseguente, seppur graduale, riduzione del potere autocratico del sovrano, un passo fondamentale verso un sistema di governo più equilibrato e rappresentativo.

L’entusiasmo era palpabile, con la convinzione che finalmente il Piemonte potesse imboccare la strada della modernizzazione politica e sociale. Purtroppo, le speranze di cambiamento si infransero ben presto. Nei pressi di Novara, le truppe austriache, fedeli alla politica reazionaria dell’Impero Asburgico, unite alle forze lealiste a Carlo Felice, dimostrarono la loro superiorità militare, infliggendo una sonora sconfitta agli insorti piemontesi.

Questa battuta d’arresto segnò momentaneamente la fine delle aspirazioni dei patrioti piemontesi, soffocando nel sangue le nascenti istanze di progresso e democrazia. La repressione che seguì fu spietata, con arresti, processi sommari e condanne che miravano a disperdere e intimidire il movimento riformatore. La maggior parte degli ispiratori e leader della rivolta, consapevoli del pericolo imminente e della probabile vendetta delle forze reazionarie, riuscì a fuggire all’estero, cercando rifugio in paesi più tolleranti. Tra questi figurava anche il coraggioso Gervino, figura di spicco nella lotta per la libertà, la cui determinazione e spirito di sacrificio avevano ispirato molti. L’esilio rappresentava una dolorosa separazione dalla patria, ma anche una necessità per continuare a coltivare e diffondere gli ideali di libertà e democrazia. Alcuni però finirono di pagarla anche per gli altri.

Nonostante la sua breve durata e il ruolo politico squisitamente minoritario, questa rivolta carbonara, imbevuta di ideali risorgimentali e animata da un forte spirito patriottico, rappresentò un importante, seppur doloroso, passo nel lungo e tortuoso percorso verso l’indipendenza e l’unificazione italiana. Agì come un catalizzatore, alimentando nuovamente le aspirazioni di libertà, giustizia sociale e democrazia non solo in Piemonte, ma anche in altre regioni, come dimostrato dal rinnovato fervore patriottico coniugato a certi ideali di sinistra che animò molti valenzani, pronti a raccogliere il testimone della lotta per un’Italia democratica e unita. La rivolta, sebbene fallita nel suo intento immediato, contribuì a seminare i germi di un futuro cambiamento, preparando il terreno per le future lotte (per alcuni quasi un nazionalismo di sinistra).

I sindaci del periodo, di nomina regia dal 1815, restavano in carica per due anni che dal 1838 vennero estesi a tre anni, mentre i consiglieri scadevano ogni sei mesi. Essi (sindaci) sono stati: Cordara Pellizzari dal 1814, Annibaldi dal 1816, Del Pero dal 1819, Menada dal 1821, Cassolo dal 1824, Annibaldi dal 1827, Taroni dal 1829, Mario dal 1831, Menada dal 1833, Annibaldi dal 1837, De Cardenas L. dal 1840, Menada dal 1846.

Sapevano di salotto perbene, di razza padrona per decreto divino e sotto il coperchio la pentola ribolliva. Alcuni erano vecchi leoni in quiescenza, un tempo ruggenti, altri simpatici come Rodomonte dell’Orlando Furioso. Erano chiamati a tenere in vita un mondo arcaico ed esangue, a sottrarre alla vista certa polvere sotto il tappeto e di frequente la testa sotto la sabbia, esercitando spesso un pietoso esibizionismo. Un establishment conservatore che non era solito cambiare alcunché e che quindi non rimuoveva nulla del vecchio.

Nella nostra città, avevano poco seguito i movimenti moderati (invocavano la Costituzione e il liberismo economico) e i neoguelfi (cattolici), prevaleva ancora quell’invasato giacobinismo rivoluzionario francese che infiammava, considerato però da molti il frutto di un’allucinazione di comitiva (fallirono miseramente nel 1831 alcune iniziative cospirative di pochi, scoppiati sulla scia della rivoluzione parigina del 1830, e alcune idee progettuali che sulla carta parevano geniali). L’esperienza insegnava poco, anzi, paradossalmente, invogliava sovente a rifare gli stessi errori. Marx, il filosofo più utilizzato e fracassato dalla storia, era ancora giovinetto, non si era ancora alla lotta di classe. La borghesia cittadina era di tipo mercantile con forti presenze di proprietà terriera e di notabilato delle professioni.

Monarchia, Repubblica, Stato federale sono parole che verranno dopo. Prima c’era l’amore per la libertà, anche se alcuni la gridavano ma non sapevano nemmeno dove fosse di casa ed altri la gridavano e basta.

Intanto, negli anni che seguirono, a Valenza le discussioni politiche infiammavano le serate nelle osterie, i caffè divennero centri di dibattito e le piazze risuonavano delle voci di chi chiedeva un futuro migliore. Il terreno per l’accoglienza di queste nuove opinioni, per la loro comprensione e interiorizzazione, venne preparato con cura e lungimiranza nel 1845, con la fondazione di una prima un’istituzione di Società di Mutuo Soccorso.

Questa organizzazione, un faro di speranza in un mare di incertezze, si proponeva come obiettivo primario quello di fornire un sostegno concreto e tangibile ai lavoratori in caso di malattia, infortunio sul lavoro o gravi difficoltà economiche. Ma la sua funzione non si esauriva nell’assistenza materiale. Nell’allora Regno di Sardegna, la Società di Mutuo Soccorso rappresentava molto di più: era un baluardo di solidarietà umana, un luogo d’incontro e di aggregazione sociale, ma soprattutto, un vivace centro di associazione e di discussione politica. Dopo un lungo mal di pancia, Il 31 maggio 1851 sarà poi partorita la Società Artisti e Operai di Valenza, il primo vero sodalizio di mutuo soccorso (lo Statuto Albertino ha segnato la svolta, in quanto veniva garantita la libertà di associazione).

Nel Regno di Sardegna, un periodo storico segnato da fermenti politici e sociali, l’emanazione della legge elettorale da parte di Re Carlo Alberto il 17 marzo 1848 raffigurò una tappa significativa, seppur limitativa, nel processo di rappresentanza politica.

Questa legge stabiliva che il diritto di voto fosse riservato esclusivamente ai cittadini maschi che avessero compiuto almeno 25 anni. Oltre al requisito dell’età, era indispensabile possedere un’alfabetizzazione minima, ovvero la capacità di leggere e scrivere, e versare nelle casse del Regno un tributo annuale di almeno 40 lire. Quest’ultima clausola, basata sul censo, escludeva di fatto una larga fetta della popolazione, relegando la partecipazione politica alle classi più agiate. Tuttavia, la legge prevedeva alcune eccezioni. Erano ammessi al voto, indipendentemente dal censo, i magistrati, i professori universitari e gli ufficiali dell’esercito, figure considerate di rilievo sociale e culturale, a cui si riconosceva un ruolo attivo nella vita pubblica.

Parallelamente, l’amministrazione comunale manteneva una struttura ben definita. Il sindaco, figura chiave dell’amministrazione locale, veniva sempre scelto direttamente dal Re tra gli eletti del consiglio comunale, sottolineando il controllo esercitato dal potere centrale sulle autonomie locali. Il sindaco era affiancato da un vice sindaco, dal consiglio di credenza (una sorta di giunta comunale) e dal consiglio comunale, organo rappresentativo della comunità locale.

L’anno 1848, segnato da rivoluzioni e sconvolgimenti in tutta Europa, fu particolarmente turbolento anche per Valenza. A ricoprire la carica di sindaco in questo periodo fu inizialmente Gerolamo Menada. Tuttavia, a seguito della disfatta piemontese contro l’esercito austriaco, un evento che scosse profondamente l’opinione pubblica e mise in discussione la leadership politica, Menada fu sostituito da Alessandro Cassolo, il quale rimase in carica fino al 1849. Poi, nel 1849, fu chiamato a ricoprire la carica di primo cittadino l’avvocato Giovanni Terraggio, che ricopriva anche la funzione di giudice mandamentale, figura di spicco nella giurisdizione locale che si lasciò presto escludere dal comando con la grazia dei tempi. Dal 1850, e fino al 1858, Alessandro Cassolo, dimostrando notevoli capacità di adattamento e di manovra politica, ritornò nuovamente in auge, riappropriandosi del ruolo di sindaco.

In questo contesto, l’emergere di una vera e propria sinistra politica era ancora un fenomeno limitato a una ristretta élite intellettuale, caratterizzata da una riflessione approfondita sui problemi sociali e politici, ma con una scarsa capacità di mobilitazione e di coinvolgimento nel sentimento popolare. Questa élite «pensosa ma poco ululante» faticava a trovare un terreno comune con le aspirazioni e le preoccupazioni della gente comune.

In questi anni, l’amministrazione cittadina era in mano a una coalizione che non nutriva un particolare entusiasmo verso il governo piemontese guidato da figure come Cavour e Rattazzi, noto per le sue politiche anticlericali. Questa distanza tra l’amministrazione locale e il governo centrale rifletteva le tensioni e i contrasti ideologici che attraversavano la società in quel periodo, in cui le questioni religiose e il rapporto tra Stato e Chiesa rappresentavano un tema centrale del dibattito politico, con incontri locali quasi sovrannaturali e fervori clericali intensi.

Il sindaco, spesso troppo cedevole e troppo includente, tra momenti di esaltazione popolare e da qualche episodio di tradimento politico, aveva un’impronta effimera sulla comunità. Dopo Cassolo, si susseguirono alla guida del comune l’avvocato Angelo Foresti, un uomo di legge rispettato che amministrò dal 1958 al 1859, e successivamente Pietro Paolo Camasio, un altro amministratore locale subordinato che guidò la città dal 1860 al 1867.

In questi anni resistenziali, al governo locale c’è sempre stato un cartello politico concentrato, nemico della vera sinistra, dove una ristretta cerchia di attori dominava e orientava, con ostinazione, a rovesciare disprezzo verso il dissenso e la democrazia, apparendo così al popolo molto più reazionario di quanto sia veramente stato.

Nel 1853, un evento cruciale, sebbene i dettagli specifici siano ormai avvolti nella nebbia del tempo, testimoniò l’impegno precoce e indefesso della collettività valenzana nella lotta emergente per i diritti del popolo. Una folla numerosa si radunò e iniziò un lancio di sassi contro gli edifici pubblici e le residenze dei notabili, un gesto di ribellione che scosse profondamente le autorità. L’agitazione fu tale da richiedere l’intervento dei carabinieri e dell’esercito per domare la rivolta e ristabilire l’ordine.

Questo episodio, che probabilmente coinvolse anche rivendicazioni salariali, condizioni di lavoro più umane, piantò il seme di una consapevolezza crescente riguardo alla necessità di una giustizia sociale. Mentre le guerre d’indipendenza e di riscatto che si susseguivano sembravano insegnare che la belligeranza è bella anche se fa male, considerando ogni rilievo al riguardo come una manifestazione antipatriottica.

Poi nel 1864, nel nuovo Regno d’Italia (proclamato il 17 marzo 1861), l’atmosfera locale, che occhieggiava alla trasgressione, si fece più tesa per un certo provvedimento. Il Consiglio Comunale, allora espressione quasi esclusiva degli interessi delle classi dominanti, emanò un decreto che, a prima vista, poteva sembrare una mera questione di ordine pubblico: il divieto di suonare «l’ora di notte». Questa consuetudine, radicata nel tempo, prevedeva che un suono – spesso una campana – alle dieci di sera avvertisse i cittadini di ritirarsi nelle proprie abitazioni e cessare ogni attività pubblica.

Sebbene presentato come una misura volta a garantire tranquillità e decoro, il provvedimento fu percepito da molti, specialmente tra le fasce più povere della popolazione, come un tentativo subdolo, tra il reale e il surreale, di limitare la libertà di movimento, di esercitare un controllo sociale opprimente e di imporre un rigido coprifuoco non dichiarato. Il malcontento serpeggiò tra le vie, nutrito dal risentimento per un’ennesima decisione presa dall’alto, senza consultazione alcuna con il popolo. Un interrogativo che ormai rimbalzava spesso, accendendo la gente.

L’episodio più eclatante, la scintilla che infiammò definitivamente gli animi, si verificò però nel 1866, in occasione della nomina del deputato di Valenza al parlamento. La competizione elettorale si rivelò uno scontro ideologico frontale, con due figure emblematiche a contendersi la rappresentanza della città. Da un lato, si ergeva il nobile monarchico e vincitore Figarolo di Gropello (Luigi di Gropello Tarino), incarnazione perfetta del conservatorismo aristocratico, custode di un ordine sociale che garantiva privilegi ereditari e status quo. Dall’altro, si presentava Pietro Cantoni, un avvocato di Sale poco tollerato, fautore di riforme sociali e politiche, un uomo che predicava l’uguaglianza, l’istruzione per tutti e la necessità di un cambiamento radicale nel sistema.

In un’epoca in cui il diritto di voto era ancora un privilegio gelosamente custodito da una ristretta élite conservatrice e tradizionalista – composta da proprietari terrieri, membri dell’alta borghesia e figure legate al clero – il popolo valenzano, sistematicamente escluso dalla partecipazione democratica e privato della possibilità di esprimere la propria volontà attraverso le urne, cercava di manifestare sempre più la propria contrarietà al metodo antidemocratico e alla mancanza di rappresentanza con alcune dimostrazioni di protesta pubblica.

Nei primi decenni dopo l’Unità d’Italia al governo della città c’era sempre ancora una classe politica conservatrice traballante e lacerata da tensioni interne e da meschine furbizie, che, come una divinità viziata, nella versione «nessuno mi può giudicare», si reputava superiore per censo e cultura ed era intollerante verso la nuova sinistra e i suoi presupposti ideologici, ancora troppo isterici e settari.

Rientravano nel proletariato coloro che, non disponendo di altro che della propria capacità di lavorare, trovavano occupazione come braccianti nelle campagne (proletariato agricolo) o come operai nelle aziende (proletariato industriale). Mentre l’analfabetismo a livello nazionale era superiore al 50%, a Valenza era poco più del 20%.

Nel 1888 il numero dei consiglieri comunali di Valenza veniva elevato da 20 a 30. Restavano in carica per 6 anni, salvo sorteggio per il rinnovo parziale che avveniva ogni 2-3 anni (quasi un gratta e vinci). Si apriva la corsa per il nuovo inquilino del Comune, la nomina del sindaco non era più regia ma competeva finalmente al Consiglio comunale. La sinistra radicale si batterà per la trasformazione dell’amministrazione comunale, che fino ad allora si era retta sulla nobiltà terriera. I sindaci saranno: 1889, Giuseppe Terraggio; 1892, Vincenzo Ceriana; 1897/8 Ferdinando Abbiati; 1905, Luigi Vaccari. Di tenenza autocratica e personalistica, guidati da motivazioni più profane che ideali, nessuno di loro avrà caratteristiche di apostolo puro né di combattente indomito e non sarà facile rimanere sulla cresta dell’onda.

Dal gennaio a luglio 1888 usciranno 33 numeri del giornale «Gazzettino di Valenza» diretto da Giusto Calvi e caratterizzato dalla sua intransigente linea di sinistra. Il tentativo verrà ripreso, dopo alcuni mesi, da Edoardo Bonelli con una decina di numeri del foglio «La Gazzetta di Valenza».

Il ricambio nell’amministrazione della città sembrava quasi concretarsi, anche se per la sinistra l’elezione pubblica del sindaco era solo una semplice mossa borghese di trasformismo locale. Mentre gli esponenti democratici locali più radicali continuavano a mantenere un certo distacco dai pochi profeti operaisti valenzani.

Le idee rabbiosamente anticlericali, propagate dalla Rivoluzione Francese, erano sempre ineluttabili per molti uomini di sinistra. Ad affrontarli in questo secolo sono stati dei prevosti locali dotati di acume e intelletto non comuni, quali: Marchese, Pellati, Rossi e infine, a cavallo del nuovo secolo, don Giuseppe Pagella. Quest’ultimo capace di esprimere realisticamente un nuovo secolo, entrando in sintonia con un mondo culturale diverso dal suo, ha accarezzato quello non cattolico senza attenersi a copioni già scritti, forse anche con una timida apertura al materialismo storico, anche se poco dialettico.

Giusto Calvi, uno studioso locale attento alle questioni sociali, alle disuguaglianze del popolo e ai problemi del proletariato, nel 1888 è ancora affiliato al gruppo operaio e repubblicano, diventerà in seguito una figura di spicco del socialismo italiano. Tornato a Valenza dopo una parentesi argentina, si ricongiungerà rapidamente ai vecchi amici del Gazzettino costituendo attorno a sé un nucleo di rilevanti protagonisti della cultura di sinistra valenzana: Compiano, Oliva, Balzano, Garrone, Passoni, Gaudino, Monelli e altri. Questo gruppo esuberante, dopo la fondazione del partito al congresso di Genova nell’agosto 1892, si presenterà come un locale cartello socialista vero e strutturale, con uno spazio elettorale fattosi sempre più largo, ma a geometria variabile.

Ben presto (1892) questi radicali socialisti valenzani, sempre guidati da Calvi, pubblicheranno il primo numero di un nuovo periodico, «L’Avanti-Gazzettino di Valenza».

Era un cenacolo di pensatori rivoluzionari, impegnati nella battaglia contro il capitale, che radunava un élite sussiegosa che spesso ne offuscava la ragione. Il nuovo periodico pseudo-socialista che si presentò poi al pubblico valenzano il 5 aprile 1896 fu il «Gazzettino di Valenza FFV», stampato nella tipografia di Lorenzo Battezzati, sempre pronto a lanciare messaggi di rottura e di scontri frontali con un vitalismo che era croce e delizia di tanti, poiché, come sempre, trionfavano anche il doppio standard (ciò che vale per gli altri non vale per noi) e una radicalità parolaia urlata per coprire il deficit di iniziative efficaci. Prendeva sempre più piede una sfida alle istituzioni e al sistema.

Nel 1897, a Valenza, i socialisti erano numerosi e compatti: in poco tempo, si era formata un’associazione socialista di oltre 500 persone e nel loro circolo si tenevano conferenze e riunioni di frequente. Anche l’Associazione degli operai orefici, con posizioni estreme nel partito, ma senza peso elettorale, contava oltre 200 soci socialisti, anche donne. I contadini invece erano quasi disprezzati dai politici atei: troppo legati alla terra, all’effettività e inevitabilmente a Dio.

A fine Ottocento, Il panorama economico di Valenza era in rapida evoluzione, pur con qualche nota stonata. Alle tradizionali filande e fornaci si affiancarono nuove industrie, in particolare nei settori orafo (presente già da qualche decennio) e calzaturiero. Queste nuove attività produttive crearono opportunità di lavoro e attrassero lavoratori da altre zone, contribuendo a un aumento della popolazione e a una maggiore diversificazione sociale.

L’interazione con uomini provenienti da ambienti diversi, portatori di nuove idee e di esperienze differenti, favorì la diffusione delle opinioni progressiste e di emancipazione dei lavoratori. Le aziende divennero non solo luoghi di produzione, ma anche siti di socializzazione e di dibattito, dove i lavoratori potevano confrontarsi sulle proprie condizioni di lavoro, discutere di politica e organizzarsi per rivendicare i propri diritti.

In questo contesto dinamico e in fermento, Valenza si tramutò in un vero e proprio laboratorio sociale, un crogiolo di idee e di trasformazioni che avrebbero segnato profondamente la sua storia futura. La coscienza di classe si rafforzava, alimentando la lotta per un futuro più giusto e più umano.

(SEGUE)

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