Coliva: «Per conservare un patrimonio bisogna sentire di possederlo. La cultura deve essere condivisa»
"Musei e non location: le mostre giuste sono quelle ‘necessarie’, incoraggiano la ricerca"
ALESSANDRIA – In un mondo che cambia «innarrestabile e vorticoso», dobbiamo ancorarci alle nostre radici per «trovare agganci di condivisione» che creino futuro. Oggi non è più così scontato sentirsi eredi – e di fatto custodi – di quello che resta, ma quando questa consapevolezza si sedimenta, «i risultati arrivano da soli».
È allora che la nostra storia, la nostra tradizione, la nostra bellezza diventano patrimonio comune da custodire con il privilegio di poterne raccontare ancora la storia. È Anna Coliva, storico direttore della Galleria Borghese di Roma, a spiegarlo al nostro giornale con l’esperienza di chi ha dedicato la sua intera carriera a questa missione.
Dottoressa Coliva, quali sono le principali sfide che si affrontano nella gestione del patrimonio culturale?
La discrepanza oggettiva tra i principi ispiratori e i metodi da cui derivano le ragioni per conservare il patrimonio culturale e il mutamento inarrestabile e vorticoso del mondo. Per conservare un patrimonio bisogna sentire di possederlo. È comprensibile che l’evoluzione che, nel tempo, travolge ogni equilibrio costituito, non consenta a culture diverse, per distanza geografica o generazione, di conoscere e comprendere principi e metodi che, in un mondo più chiuso e più lento, potevano trasmettersi per tradizione comunemente accettata. È normale che non se ne riconosca più spontaneamente la validità. La sfida sta proprio qui: nel trovare agganci di condivisione e nel rendere vincente la cultura che riteniamo ci abbia generati e perciò consideriamo valida a creare futuro.
Arrivati a questo punto?
Gli effetti arrivano da soli. La nostra cultura contiene già i metodi tecnici, gestionali, ma soprattutto economici, sociali, politici, morali per convivere con la contemporaneità, producendo soddisfazione e benessere diffusi. È necessario, però, essere convincenti nell’ottenere che i principi vengano riconosciuti e condivisi e che il linguaggio intrinseco del patrimonio culturale risulti intelligibile e se ne riconosca la necessità per tutti, quale che sia la provenienza sociale o culturale e l’età.
Si può partire da queste basi per creare un senso di comunità e di appartenenza ad un territorio?
È uno degli suoi scopi principali che possiamo affidare alla cultura. In questo, l’Italia, con la sua specificità e varietà di connotazioni, è riuscita nella maggior parte dei casi a mantenere vivissimo il legame con il territorio. D’altra parte, la gloriosa istituzione delle Soprintendenze è stata configurata per aderire perfettamente a questa multiformità culturale e garantirne la conservazione e la vitalità. L’Italia è uno dei Paesi europei che nelle sue istituzioni di tutela ha realizzato con maggiore efficacia il principio di una conservazione che generi sviluppo di conoscenze e di valori.
La ‘cultura’, in senso ampio, può essere oggi risorsa economica e leva di sviluppo?
Ormai per ‘cultura’ si intendono i beni culturali: gli oggetti materiali, i monumenti, le chiese. Da qui discende il pericoloso fraintendimento del primato culturale italiano: possiede molti ‘beni’, quindi, l’Italia è il Paese della Cultura. Eppure i drammatici dati Ocse dicono il contrario e mettono in guardia su gravi forme di analfabetismo, sia di ritorno che funzionale. Parlando di redditività della cultura, si intende, alla fine, solo il turismo, anzi, il turismo di sfruttamento che genera un’economia non strutturata che richiede poca qualificazione. È una degenerazione dell’economia, la cui finalità è produrre benessere collettivo e complessivo. Se ci atteniamo al concetto più classico di economia e riconosciamo il patrimonio culturale come valore, l’economia è conseguente, ma come impiego razionale di quel valore per ottenere il massimo vantaggio col minimo danno.
Tuttavia, pare che l’interpretazione prevalente sia, invece, l’equivoco di economia con sfruttamento…
Il patrimonio viene usato per trarre forzosamente profitto, anche con una certa soddisfazione post ideologica finendo per usurarlo e comprometterne le potenzialità di durata, tanto fisica che valoriale e di prospettiva futura. Soprattutto, in tal modo, non serve a creare un reddito significativo perché nessun museo al mondo – neppure quelli più agguerriti nel reperire risorse attraverso biglietti, bar, ristoranti – si mantiene con i propri commerci. Basti dare un’occhiata ai conti del Metropolitan che spesso si porta come esempio: i suoi numeri, tra visitatori ed entrate varie (incomparabili con i nostri) non coprono nemmeno la metà dei costi.
Quali sono i progetti più importanti che ha seguito nel corso della sua carriera?
La cura costante della Galleria Borghese, il lavoro continuo per preservare la bellezza delicata e nello stesso tempo esplosiva, quasi violenta nei suoi apici, di questo luogo assolutamente fuori dall’ordinario, è stato il progetto più importante. L’incessante attività di restauro e manutenzione è stata finalizzata a questo, ma anche i progetti culturali, le pubblicazioni, le ricerche: lo stesso progetto ventennale di grandi mostre da tenere al suo interno, tutte da connettersi alle sue specificità sia storiche che collezionistiche, era volto a farne emergere l’essenza. La realizzazione di una mostra è la ‘messa in scena’ del lavoro costante e nascosto che si svolge in museo. Le nostre sono state molto specifiche su singoli artisti o contenuti culturali della Galleria: poteva essere Raffaello o Lucas Cranach, Bernini o l’Antico, per citarne alcune; tutte, nello stesso tempo, hanno avuto grande successo, riportando la Galleria Borghese nel pieno del dibattito internazionale e facendo sì che divenisse un luogo imprescindibile, anche per i romani che sono forse il pubblico più difficile da coinvolgere.
Quali sono stati i suoi punti di riferimento? Chi l’ha ispirata e come?
Sicuramente Giulio Carlo Argan, grande storico dell’arte e intellettuale che ha posto le basi metodologiche per l’approccio ‘scientifico’ alla storia dell’arte come veicolo per la conoscenza e la coscienza, oltre la critica letteraria, il piacere estetico e la sensibilità individuale. È stato lui a formulare le ipotesi teoriche e pratiche per il funzionamento dei meccanismi amministrativi dedicati allo studio e alla conservazione del nostro patrimonio artistico. Gli anni dei miei studi sono stati molto fortunati per la quantità e qualità dei protagonisti, docenti, accademici, artisti, galleristi, critici.
La sua visione è altamente innovativa: i musei devono essere ‘mostrifici’ e le mostre devono essere ‘necessarie’. Come si può passare dal mero concetto di luoghi da esposizione a quello di approfondimento e ricerca?
La mia visione è stata molto influenzata dagli esperti che ho incontrato nel corso dei miei studi. Mi hanno insegnato che tutto, dalla conservazione alla manutenzione al restauro alla valorizzazione deve rispondere ad un denominatore comune: la storia dell’arte. L’introduzione delle mostre in un museo che è sempre stato solo l’esposizione di sé stesso – anche giustamente data la sua perfetta bellezza – che è stata considerata una grande innovazione, è stata concepita come applicazione di una metodologia che rendesse il contesto e i suoi contenuti, partecipi del tema trattato per farlo comprendere più a fondo. Non esitando neppure, se fosse stato necessario, di fronte all’introduzione dell’arte contemporanea, non perché fosse di moda -allora non lo era ancora diventata -, ma perché l’occhio vivo di un artista può farci vedere cose che uno storico non è in grado di percepire. Ho affermato spesso che le mostre da farsi sono quelle ‘necessarie’ allo studio e alla comprensione del luogo, quelle che portano a nuove conoscenze storico critiche e documentarie, perché la realizzazione delle mostre incoraggia la ricerca. Spero, in questi anni, di essere riuscita ad affermare che la Galleria non è una location destinata ad ospitare qualunque cosa sia nel mainstream del momento, ma un luogo da valorizzare nel senso vero del termine per estrarne maggior valore, mettendo in reazione con essa opere, oggetti o contenuti adatti a provocare quest’emersione.
Come si è evoluto il ruolo di musei e istituzioni culturali negli ultimi anni?
Credo che il problema maggiore, oggi, sia il frainteso concetto di ‘valorizzazione’ che si traduce, alla fin fine, in mera pubblicità per far accorrere un pubblico che ora si concentra sui social media. Sono utilissimi, si intende, per diffondere informazioni e persino suggestioni, ma vanno realizzati con competenza, sia comunicativa che di contenuti e, soprattutto, non possono essere l’unico elemento di novità nei nostri musei. Della ricerca, invece, non si parla mai. Non c’è nessun progetto per istituire centri di eccellenza che poi sarebbero le vere, stabili, strutturate risorse economiche della cultura e leve di sviluppo.
Cosa servirebbe per cambiare rotta?
Investimenti in scuole di alti studi che rappresentino vere eccellenze attrattive, come accade a Parigi, Londra, negli Stati Uniti. In nessuno dei nostri musei o siti archeologici esiste qualcosa di simile. Ciò cui si dovrebbe puntare, almeno nelle istituzioni museali maggiori sono le alte scuole specialistiche specifiche per il luogo: ad esempio agli Uffizi, a Firenze, un istituto specializzato in storia del collezionismo; a Roma, al Colosseo, un istituto per lo studio dell’arte edificatoria dei romani e così via. Non che sia cosa facile poiché non è affatto incoraggiata dalle strutture centrali e io l’ho sperimentato sulla mia pelle. Invece di educare si inseguono le mode del momento e si ritiene che la spettacolarizzazione sia l’unico modo per rendere attrattiva la cultura.