Comellini: «Disabilità, il lavoro come diritto e motore di crescita: ecco la sfida»
Società
29 Dicembre 2025
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L'intervista

Comellini: «Disabilità, il lavoro come diritto e motore di crescita: ecco la sfida»

"Caregiver familiari: non sono volontari, presidi indispensabili per ogni cura"

ALESSANDRIA – Francesco Alberto Comellini opera come tecnico e consulente nel campo delle politiche per la disabilità. La sua funzione principale è tradurre le esigenze di queste persone in proposte normative e amministrative, interfacciandosi con i decisori politici.

Dottor Comellini, le “rubo” una citazione: “Le politiche per l’inclusione delle persone con disabilità, se restano sulle pagine dei giornali, non servono a nessuno”. A che punto siamo, nel nostro Paese?

Siamo in una fase di straordinaria maturità per il nostro Paese, un punto di svolta dove la politica ha l’opportunità di dimostrare la sua più alta funzione: quella di ascoltare la società e trasformare i problemi concreti in soluzioni per tutti. La ragione di questa mia visione positiva risiede proprio negli spunti che emergono dal basso, dal territorio ma anche dalle aule di tribunale. Prendiamo due recenti esempi emblematici. La sentenza 94/2025 della Corte Costituzionale sulle pensioni di invalidità che non deve essere vista come una sconfitta per il legislatore, ma come un’indicazione preziosa: ci ha mostrato la necessità di garantire l’integrazione al minimo a prescindere dal sistema di calcolo. Allo stesso modo, la vicenda dei genitori di uno studente con disabilità che si erano rivolti al Tar del Lazio che ha risposto con anni di ritardo è un segnale potente (Sentenza 15266/2025). Un genitore non dovrebbe mai essere costretto a una battaglia legale per far rispettare il Pei, che è già legge.

Quali sono le richieste più pressanti che arrivano dal mondo della disabilità?

Le istanze sono innumerevoli, ma se dovessi sceglierne una che le riassume tutte, direi: il lavoro. Non solo come mezzo per conquistare indipendenza economica, ma come strumento fondamentale per affermare il proprio valore, la propria dignità e per mettere a frutto competenze e abilità uniche. Questa richiesta oggi non è più solo un appello alla giustizia sociale, ma un’opportunità strategica che l’Italia deve cogliere ancor meglio di come già stia facendo. La politica ha il potere di innescare questo cambiamento. Il mondo della formazione, dalla scuola all’università, può così diventare il vivaio dove coltivare i talenti, costruendo un ponte solido verso le imprese attraverso un orientamento che non si limita a informare, ma ispira e crea connessioni reali. Le aziende, a loro volta, sono chiamate a guardare oltre l’obbligo delle quote di legge per cogliere l’enorme vantaggio competitivo che deriva da un ambiente di lavoro ricco di prospettive diverse. In questa missione condivisa, le nuove tecnologie e l’Intelligenza Artificiale non sono un’opzione, ma i nostri più potenti alleati. L’innovazione ci offre strumenti straordinari per abbattere le barriere, personalizzare i supporti e creare nuovi spazi di lavoro flessibili e qualificati, abilitando competenze e aprendo porte che un tempo erano chiuse. Il lavoro per le persone con disabilità non deve essere un traguardo concesso, ma un diritto vissuto, alimentato dal potenziale di ogni persona e accelerato dall’innovazione. Credo sia una scelta di civiltà e, soprattutto, la più intelligente delle strategie per la crescita di tutta la comunità.

Nel 2024 le pensioni di invalidità civile sono state 3.414.007, con un importo medio di 491 euro – appena 10 euro in più rispetto al 2023 – e con 116.053 trattamenti aggiuntivi rispetto al 2023, che hanno comportato una maggiore spesa di 90.134.723 euro. La domanda è inevitabile: quale progetto politico può essere avviato per correggere in modo strutturale, e non demagogico, il sistema pensionistico e quello dell’assistenza a persone con disabilità?

La recentissima pronuncia della Corte Costituzionale sulle pensioni di invalidità conferma che la spesa è destinata ad aumentare, rendendo non più rinviabile una riforma. I dati ci parlano di un’Italia diseguale e demograficamente fragile, il cui modello di welfare necessita di essere ripensato per garantire sostenibilità e coesione. Il Governatore della Banca d’Italia nella sua relazione annuale insiste sulla necessità di riforme che aumentino la partecipazione al lavoro e l’efficienza della spesa pubblica per sostenere la crescita, mentre la Commissione Lep denuncia i profondi divari territoriali che impediscono la garanzia uniforme dei diritti sociali fondamentali. In questo contesto, la risposta non è tagliare, ma investire in modo più intelligente. La pietra angolare di questa rivoluzione è già stata posata con il Decreto Legislativo 62/2024, che introduce l’accertamento unico della disabilità e pone al centro il “Progetto di Vita”. Il passo successivo e cruciale è la creazione di un’infrastruttura tecnologica che renda questo progetto concreto e operativo. La normativa stessa, in particolare all’articolo 16, prevede già le fondamenta per un sistema informativo integrato, una sorta di “Fascicolo Elettronico del Progetto di Vita”, stabilendo l’interoperabilità tra le banche dati dell’Inps e il Fascicolo Sanitario Elettronico. Tuttavia, la sua piena efficacia dipende da un passo ulteriore: rendere interoperabili anche le banche dati di Comuni e Regioni. E l’approccio duale a cui penso si basa su una distinzione netta e valorizzante. Da un lato, un ‘Assegno di Disabilità’ universale, slegato dal reddito, che compensa gli svantaggi oggettivi e unifica la giungla di indennità attuali. Dall’altro, una ‘Prestazione di Inclusione Attiva’, che è la vera evoluzione della pensione di invalidità. Non più un reddito che certifica l’inattività, ma uno strumento flessibile che investe sull’autonomia.

L’Italia, oggi, è un Paese inclusivo e accogliente per le persone con disabilità?

L’Italia oggi è un Paese a due velocità: da un lato, abbiamo un impianto normativo sull’inclusione tra i più avanzati al mondo; dall’altro, viviamo una realtà quotidiana dove questi diritti faticano a diventare concreti. La vera sfida per diventare un Paese realmente inclusivo e accogliente non si gioca più a Roma con nuove leggi, ma sul territorio. La vera accoglienza, infatti, si misura nella vita di tutti i giorni: in un trasporto pubblico realmente accessibile, in una scuola capace di fornire il giusto sostegno, in un’impresa che assume per competenza e non per obbligo, in un servizio sanitario che risponde ai bisogni. L’Italia diventerà un Paese accogliente quando questo impegno capillare degli enti locali, i più vicini ai bisogni dei cittadini, diventerà norma e non eccezione.

La figura del Disability manager all’interno di enti e Comuni è ancora attuale?

Sì, la figura del Disability Manager non solo è attuale, ma diventa oggi più che mai strategica. Ma occorre fare una precisazione: il termine non esiste in nessuna norma di legge, è di fatto il ‘Responsabile dei processi di inserimento delle persone con disabilità’ definito dall’articolo 39-ter del decreto legislativo sul pubblico impiego, il 165 del 2001 come potenziato dall’articolo 6 del decreto legislativo 222 del 2023, che peraltro è emanato in conformità al dettato della legge delega sulla disabilità del 2021. Nel settore privato, invece, tali figure non derivano da un obbligo di legge specifico, ma la loro eventuale adozione è una scelta strategica e una buona prassi che sempre più aziende adottano. Tuttavia, il suo ruolo si è evoluto in modo esponenziale. Con l’entrata in vigore di normative complesse come il Decreto Legislativo 222/2023 sull’accessibilità, che impone obblighi stringenti per tutte le pubbliche amministrazioni, le sue responsabilità sono cresciute a dismisura. E questa evoluzione impone una presa di coscienza: una figura di tale importanza non può essere improvvisata, né nel settore pubblico, né, seppure su base volontaria, in quello privato. Non parliamo solo di procedure tecniche, ma della gestione del capitale umano nella sua complessità. L’errore, quando si tratta di persone, ha conseguenze profonde e la professionalità non è un’opzione, ma un dovere. Di fronte a simili complessità, la vera urgenza che mi sento di segnalare alla politica è quella di avviare un grande piano formativo nazionale, dotato delle necessarie risorse, sia per il settore pubblico che per quello privato che assicuri un livello di preparazione ai Disability Manager di alto profilo accademico.

Lei, nel 2017, fu consulente per la legge sul caregiver familiare: come si possono aiutare ulteriormente i nuclei?

Per affrontare in modo organico e risolutivo il tema del sostegno ai nuclei familiari, è fondamentale partire da una precisazione terminologica non solo formale, ma sostanziale: è essenziale utilizzare sempre la definizione di “caregiver familiare”. Usare il termine generico “caregiver” è infatti fuorviante, perché sposta l’asse del compito di cura al di fuori del contesto familiare. Sancito ciò, è indispensabile scardinare un equivoco di fondo per abbracciare un nuovo principio. Se la filosofia della legge delega sulla disabilità è, giustamente, quella di mettere al centro la persona in quanto tale, a maggior ragione il caregiver familiare va anch’esso messo al centro come individuo, con le sue complessità, i suoi bisogni e i suoi diritti, che devono trovare una risposta nel sostegno pubblico. Il suo non è un atto di volontariato, ma un’imprescindibile attività di cura dettata dalla propria realtà familiare e dalla carenza di alternative. Questo processo di identificazione deve poi superare l’attuale criterio che lega il sostegno alla gravità della persona assistita; deve invece partire da un requisito oggettivo, la convivenza stabile, per poi procedere con una analisi multidimensionale e multidisciplinare del caregiver familiare stesso, per definirne i bisogni e l’impatto del lavoro di cura sulla sua vita.

Il Terzo settore e il volontariato sono un pilastro della rete sociale: le istituzioni come possono affiancarli?

Conosco personalmente molti presidenti di grandi associazioni, così come piccole realtà radicate sul territorio che, spesso con risorse nulle o limitatissime, sostengono con forza i processi di inclusione. La loro vera forza è una capillarità e un’eterogeneità che abbraccia le istanze più profonde del Paese reale. Tuttavia, il modo in cui le istituzioni possono affiancarli deve evolvere, passando da una logica di mera sussidiarietà a una di partnership strategica pubblico-privata. Un modello di questa evoluzione è l’Osservatorio Permanente sulla Disabilità (Osperdi), un ente del Terzo Settore che affianca alla sua missione istituzionale un’attività di studio e ricerca. L’obiettivo è elevare i livelli di cittadinanza attiva e coesione sociale, favorendo la partecipazione e l’autonomia per proporre l’adozione di politiche pubbliche condivise. Il suo Comitato Tecnico Scientifico, di cui faccio parte insieme a esponenti del mondo accademico, politico e istituzionale, mette a sistema un bagaglio di conoscenze diverse. Questa collaborazione è un esempio di come competenze ed esperienze possano essere poste al servizio della collettività per favorire un concreto cambio di paradigma: considerare la disabilità non più un costo, ma una risorsa per l’intera comunità.

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