Pino Rinaldi e “Ignoto X”: «La cronaca non è una chiacchiera da bar, servono grande responsabilità e rigore»
Pino Rinaldi
Società
29 Dicembre 2025
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La chiacchierata

Pino Rinaldi e “Ignoto X”: «La cronaca non è una chiacchiera da bar, servono grande responsabilità e rigore»

Il giornalista che ha segnato la storia di “Chi l’ha visto?” è su La7: niente opinionisti né scontri, ma un’indagine che accende la riflessione e aiuta a porsi domande giuste

ALESSANDRIA – Restituire centralità alle persone e ai fatti, ‘andare dentro’ alle storie di cronaca per offrire al pubblico non solo una ricostruzione dell’accaduto, ma anche una riflessione sulle dinamiche che portano al sorgere di un delitto. Così come approfondire le molteplici sfaccettature della società di oggi, per capire i perché di quello che succede, evitando il voyeurismo e i luoghi comuni e senza indulgere nel macabro.

Una sfida per ogni giornalista che si occupa di cronaca, ma anche una missione responsabile per chi fa questo mestiere. Pino Rinaldi, che da qualche settimana è alla guida di “Ignoto X”, con il supporto della redazione del Tg La7, ha scelto questa strada per intraprendere un viaggio nel mondo nascosto dietro ai grandi casi di cronaca, più o meno recenti. Con particolare attenzione ai dettagli meno evidenti e un forte rigore investigativo.

«Non vogliamo scontro»

«Una delle regole che ci siamo imposti con “Ignoto X” è quella di scartare totalmente il confronto tra le parti in diretta, una linea che ha voluto lo stesso direttore Enrico Mentana. Non vogliamo creare lo scontro, anche se da un punto di vista televisivo può portare benefici in termini di share – spiega proprio Rinaldi – Ci sono programmi che vivono di queste cose, ma per scelta abbiamo voluto evitarlo: diamo spazio a tutte le parti per permettere allo spettatore di avere una visione più completa possibile. Quando sono stato ospite in diversi programmi, ho notato che i tempi sono diventati un po’ come i reel delle piattaforme social: si dice qualcosa in pochi secondi, ma non si ragiona».

Porsi le domande giuste per arrivare a produrre un pensiero logico per la comprensione dei fatti è quasi controcorrente, in un momento in cui i media premiano la spettacolarità. Le opinioni corrono più veloci del ragionamento che le sottende e il giudizio condiviso è spesso semplice e affrettato.

«Non vogliamo essere soporiferi – continua – ma mettere lo spettatore nelle condizioni di porsi le domande giuste in modo tranquillo. È così che si accendono certe parti del cervello che stimolano la riflessione. Inoltre, per scelta abbiamo voluto evitare la presenza di ‘opinionisti’ che, secondo me, sono il peggior frutto della televisione degli ultimi vent’anni. Oggi l’aria che tira è che tutti siano diventati portatori di idee, ma sono fonti autorevoli? Troppo spesso si sentono ovvietà. Mi sembra di stare nel film “La finestra sul cortile”, dove la portinaia parla con il vicino di casa e, alla fine, qual è il contenuto? Una chiacchiera. Ci sono tante persone, oggi, che in tv hanno un ruolo autorevole nel trattare casi di stretta attualità: ma è normale che abbiano acquisito così tanto spazio comunicando al grande pubblico il loro punto di vista? Si sta portando l’acqua al mulino della verità, verso una visione oggettiva, oppure – se a parlare è il perito che difende Tizio o Caio – si finisce solo per avvallare il suo punto di vista? È come quando si chiede all’oste se il vino è buono…».

«Ci sia responsabilità»

Ricordando la famosa citazione di Eco in relazione ai social, è un ragionamento che può essere facilmente traslato a molti contenuti che quotidianamente compaiono in televisione. Ma il pubblico cosa si aspetta? Cosa preferisce?

«Il pubblico de La7 – aggiunge Rinaldi – ha già scelto un tipo di televisione di un certo livello. Ritengo, però, che da parte di tutti ci debba essere responsabilità. Appartengo alla vecchia scuola, sono nato nella Rai 3 di Guglielmi e ho avuto punti di riferimento importanti nella mia storia professionale. La mia stella polare è sempre stata la trasparenza, l’onestà intellettuale del dato: non dare nulla per scontato. Chi parla in tv lancia un messaggio ‘urbi et orbi’: è perciò fondamentale fornire coordinate per far crescere chi sta dall’altra parte, spiegando i fatti affinché non diventino semplici suggestioni. Io faccio un discorso che mi auguro piano piano vada a coinvolgere anche quel pubblico che, ahimè, è stato abituato alla chiacchierata da bar».

Si tratta un po’ di ripartire dalle vecchie basi: la cronaca nera può e deve essere interpretata anche come chiave di lettura della società.

«Faccio questo mestiere da tantissimi anni – continua – Sono stato 27 anni a “Chi l’ha visto”, poi è venuto “Commissari”, dopo un programma che non ha avuto molta fortuna: si chiamava “Vertigo” e analizzava ciò che accade prima del delitto. Partendo dall’assunto di Bauman de “La società liquida”, si approfondivano le dipendenze dell’uomo contemporaneo e le sue fragilità. Potrei fare un elenco di tantissimi casi trattati che nascono da un simile humus e di cui, di conseguenza, non possiamo non tenerne conto quando li si tratta. Dobbiamo saper leggere la cronaca nera e utilizzarla come cartina di tornasole per conoscere meglio noi stessi, i valori nei quali siamo immersi, chi eravamo, dove stiamo andando. Nelle ultime stagioni ci sono stati delitti i cui protagonisti erano giovani e giovanissimi. Ricordo quel ragazzino di 15 anni che ha gettato dal terrazzo la sua ‘fidanzatina’ coetanea. Già che a 15 anni si parli di ‘fidanzatina’, fa aprire un mondo. Dietro ogni fatto di cronaca nera, c’è una realtà da analizzare: in questo caso, per esempio, il tipo di educazione, le figure genitoriali, i ruoli, il contesto in cui sono calati. Non ultimo il ruolo della scuola, che dovrebbe essere un contesto dove non solo ci si forma, ma si riempiono dei vuoti, anche familiari. Ma lei sa quanto guadagna un professore oggi?».

«Non si può semplificare»

Le letture sociologiche e antropologiche non possono essere eluse quando si tratta di fare cronaca in modo rigoroso: è possibile andare oltre l’ovvio e comprendere i perché solo con gli strumenti giusti.

«Oggi – aggiunge Rinaldi – mi accorgo che esiste una cantilena di tante criminologhe – non tutte perché ce ne sono di altissimo livello – che dicono sempre le stesse cose: va di moda questa lettura narcisistica, ma non si può semplificare tutto con delle etichette. I fatti, il dato reale, il contesto sono l’unico strumento per spiegare la realtà. Non contano i pareri personali. Dobbiamo fare un passo indietro e ricordarci che siamo in una società dove ci sono giornalisti che devono fare il loro lavoro, poi ci sono i poliziotti, ci sono i magistrati, ci sono i carabinieri, ci sono i procuratori. C’è tutta una macchina della giustizia: a ciascuno il suo. Un giornalista non ha il compito di risolvere casi».

Eppure, Pino Rinaldi un caso lo ha risolto, quando nel 1998 a Londra intervistò Ferdinando Carretta, uomo che risultava scomparso e che proprio a lui, per primo, confessò il triplice omicidio della sua famiglia. Un momento che segnò la storia della televisione italiana e di quella vicenda di cronaca.

«Tutto avrei immaginato, meno che di risolvere quel caso, considerato ciò che poi mi sono trovato a vivere – racconta – Di quell’esperienza, ricordo semplicemente la mia correttezza estrema nei confronti di Ferdinando Carretta: non ho puntato allo scoop. La notte stessa avrei potuto registrare tutto e scappare via, ma per me la cosa più importante era salvaguardare il ragazzo, perché avevo un terrore incredibile che facesse una sciocchezza. L’ho convinto a chiarire la sua posizione e devo dire che poi l’ho seguito e ha avuto una vita, recuperando per quanto possibile una sorta di equilibrio. L’ho sentito ancora prima che morisse e la sua vita era ripresa su una china di normalità, pur non dimenticando mai».

Non solo. «Se non lo avessi intervistato e non gli avessi dato la possibilità di raccontare la sua versione dei fatti, il giornalismo italiano l’avrebbe massacrato. Avrebbero prodotto teorie, avrebbero detto le cose peggiori – conclude Rinaldi – Con quell’intervista è stato disinnescato un processo. All’epoca i miei colleghi si erano inventati pure l’idea che lo riportassi in Italia per farlo andare a “Chi l’ha visto?” (trasmissione per cui lavorava allora il giornalista, ndr) e farlo confessare in diretta. In quell’occasione, solo Enrico Mentana, che allora conduceva il Tg5, disse “l’avessimo fatto noi questo scoop…», rimettendo le cose a posto».

 

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