I 90 anni della Vitti: Monica e il desiderio
“È tutto mescolato, la vita, i personaggi. Ma allora è tutto falso, direte voi? No, è tutto vero: specialmente i personaggi”
“Monica e il desiderio” (con riferimento al titolo di un noto film di Ingmar Bergman): immaginiamo, infatti, che l’intera vita e la carriera artistica di quest’attrice che ha saputo essere al tempo stesso nei ruoli cinematografici altera e popolana, algida e calorosa, determinata e smarrita, estemporanea e calcolatrice, sia stata attraversata dalle correnti, ora domabili, ora impetuose, di un desiderio struggente per la ricerca di quel senso di alterità, di assoluto che l’arte della recitazione offre a chi se ne riveste.
«Recitare è stata la mia salvezza. Se no, forse, mi sarei uccisa», scrive la Vitti nell’autobiografico “Sette sottane” (Sperling & Kupfer, 1993).
Amante, almeno per quel che riguarda la lunga carriera artistica, dei paradossi, Monica è stata un’icona del cinema drammatico, serio, impegnato, grazie alle pellicole interpretate sotto la regia e la guida del suo compagno Michelangelo Antonioni: la cosiddetta “Tetralogia dell’incomunicabilità”, in cui indossò i panni di donne dalla complessa personalità, per lo più insoddisfatte, nevrotiche e tormentate, dalla Claudia di “L’avventura” (1960) alla Valentina di “La notte” (1961), dalla Vittoria di “L’eclisse” (1962) sino alla Giuliana di “Deserto rosso” (1964).
«Voglio che un attore cerchi di darmi quello che chiedo nel modo migliore e più preciso possibile», raccontò Antonioni in un’intervista a “Variety”, nel 1967. «Non deve cercare di scoprire di più, perché poi c’è il pericolo che diventi lui stesso regista. È umano e naturale che veda il film dalla sua parte, ma io devo vedere il film nel suo insieme. Deve quindi collaborare in modo disinteressato, totale. Non è importante per me se non capiscono, ma è importante che io mi ritrovi quello che cercavo, in quello che mi hanno dato o in quello che mi hanno proposto. Monica è sicuramente la prima attrice che mi viene in mente. Non riesco a pensare a un’altra brava come Vanessa Redgrave, forte come Liz Taylor, vera come Sophia Loren o moderna come Monica. Monica è incredibilmente mobile. Poche attrici hanno queste caratteristiche di mobilità. Ha un suo personale e originale modo di agire».
Dopodiché, l’attrice romana, nata Maria Luisa Ceciarelli il 3 novembre 1931 (di scegliersi uno pseudonimo le venne consigliato molti anni più tardi, durante il periodo dell’Accademia d’Arte Drammatica, da uno dei suoi insegnanti, Sergio Tofano: lei accostò il nome Monica, tratto da un libro che stava leggendo, alla prima parte del cognome della madre Adele Vittiglia, bolognese), si è trasformata nell’icona comica per eccellenza all’interno della commedia all’italiana degli anni 60’ , a partire dal ruolo di Assunta Patanè, la giovane siciliana “disonorata” dal compaesano Vincenzo Macaluso (Carlo Giuffré), che meditando vendetta si trasforma ne “La ragazza con la pistola” per la regia di Mario Monicelli (1968).
Il regista fu costretto a imporsi duramente con i produttori, che non ritenevano i personaggi comici adatti a un’attrice che aveva fatto del dramma il suo vessillo, sin dai tempi delle prime prove teatrali (l’esordio avvenne nel 1953, con “Ifigenia in Aulide” di Euripide, nell’adattamento di Accursio Di Leo) e, in seguito, del doppiaggio (Vitti prestò la propria voce inconfondibile, dal timbro caldo e roco, al personaggio di Ascenza in “Accattone” di Pier Paolo Pasolini (1961), e a quello di Dorian Gray ne “Il grido” dello stesso Antonioni (1957). «Monica era felicissima di fare questo personaggio», scrisse Monicelli nel volume “Mario Monicelli, l’arte della commedia” (Edizioni Dedalo,1986). «Per la prima e l’ultima volta nella sua vita, Monica si fece pettinare e truccare in modo anomalo perché lei non modifica la sua immagine per nessuna ragione al mondo. In quel caso forse era intimidita perché era la prima volta che lavorava con me. La pettinammo con una treccia nera, i capelli tirati ai quali era contrarissima, infatti va sempre in giro con dei boccoloni, una testa da leone da cui non si stacca mai».
Anche Ettore Scola affidò alla Vitti un ruolo tragicomico, nel suo “Dramma della gelosia. Tutti i particolari in cronaca” (1970), accanto a Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini, ma il legame artistico che sancì la creazione di una nuova coppia eccellente del cinema italiano – quella formata da Alberto Sordi e Monica stessa – sospesa tra la commedia e il dramma, nacque l’anno precedente, il 1969, sul set di un film diretto da Sordi: “Amore mio aiutami”. Con “Amore mio aiutami” la Vitti ebbe l’occasione di provare a costruire una nuova immagine di sé, legata a un cinema più scanzonato e leggero: la sfida venne ampiamente vinta presso il pubblico e i recensori, tanto che l’attrice iniziò a essere apprezzata anche per il suo coté umoristico. Il duetto con Sordi si declinò in altri due film, sempre da lui diretti: “Polvere di stelle” (1973) e “Io so che tu sai che io so” (1982).
Se “Polvere di stelle” rappresenta un commosso, divertito e – a tratti – malinconicamente amaro omaggio al perduto mondo dell’avanspettacolo, che accompagnava la rinascita dell’Italia subito dopo la seconda guerra mondiale, è palese che sono Mimmo Adami e Dea Dani – i personaggi interpretati dalla Vitti e da Sordi – a costituirne il nucleo pulsante. Da antologia parecchie scene, fra cui l’incontro alla stazione con Wanda Osiris e la famosissima scena in cui Mimmo e Dea cantano e ballano sulle note di “Ma ‘ndo vai se la banana non ce l’hai?”.
Differente, invece, il contesto narrativo di “Io so che tu sai che io so”, pellicola che ha molti punti di contatto con “Amore mio aiutami”. In queste due opere Sordi parve voler proporre una vera e propria indagine sociologica sulle dinamiche del rapporto di coppia, colto nei momenti di crisi, di stanchezza e saturazione, come emblema di una società incapace di comunicare sul piano dei sentimenti e delle emozioni.
Negli anni, Monica Vitti è diventata un’attrice dal coté internazionale, avviando collaborazioni con cineasti del calibro di Miklós Jancsó, Jean Valère, Luis Buñuel e André Cayatte. “Scandalo segreto” (1990) – da lei scritto, diretto e interpretato, è anche il suo ultimo film. La “fatalona comica”, come la definiva Mario Monicelli, ha vinto, tra i molteplici riconoscimenti internazionali, cinque David di Donatello, tre Nastri d’Argento, dodici Globi d’Oro, un Ciak d’Oro alla carriera, un Leone d’Oro alla carriera (nel 1995) e un Orso d’Argento alla Berlinale.
Al marzo del 2002 risale la sua ultima apparizione pubblica, alla prima teatrale di “Notre-Dame de Paris”. Sono arrivati, infine, per la Vitti gli anni oscuri e dolorosi della malattia, dell’oblio, dell’abbandono e dell’irreversibile lontananza dalle scene, dal suo pubblico.
Noi, invece, amiamo ricordarla attraverso le sue parole, testimonianza di un’acuta e nello stesso tempo consolante consapevolezza dell’intreccio inestricabile tra commedia e dramma, che è alla base dell’esistenza umana: «Nella mia vita non sono mancate le lacrime: lacrime copiose e liberatrici, lacrime di tristezza, di sconforto, di solitudine, di stanchezza. Sì, ho riso e pianto molto. […] Il segreto della mia comicità? La ribellione di fronte all’angoscia, alla tristezza e alla malinconia della vita».