Martini e Villa Ottolenghi
Esce da Johan&Levi un bel volume su Arturo Martini (Treviso 1889-Milano 1947) che si può considerare la prima vera biografia critica dell’artista, dopo quella romanzata e parziale di Giovanni Comisso “I due compagni,1936” (Elena Pontiggia, Arturo Martini, Johan&Levi, 2017, pp.303, €28)
Si tratta di un testo illuminante, dovuto a una delle più accreditate storiche dell’arte italiane, che analizza dettagliatamente tutte le principali opere dell’artista e trae dalla biografia informazioni utili a una miglior conoscenza della sua scultura. Molti i dati finora sconosciuti da lei portati alla luce e le lettere inedite dell’artista pubblicate nel libro.
Il volume è diviso in quattro parti. Nella prima (“Il tempo degli esordi”) viene raccontata l’infanzia poverissima di Martini a Treviso, dove era nato nel 1889, e la sua formazione, il periodo passato a Monaco grazie a una borsa di studio nel 1909 (la “tragedia monegasca”, come diceva lui stesso), il momento futurista e il viaggio a Parigi del 1912.
La seconda sezione (“Dalla fame alla fama”) segue l’artista durante la guerra e il dopoguerra e nelle peripezie che, dalla miseria più nera, lo portano a farsi conoscere e apprezzare nel mondo dell’arte. Dopo il periodo di guerra, Martini si trasferisce a Milano nel 1919-1920, dove si incontra e si scontra con Margherita Sarfatti e il “Novecento”. Nel frattempo si sposa con Brigida e nel 1921 va ad abitare nel paese di lei, Vado Ligure. Non ha soldi e deve elemosinare l’aiuto del suocero: un disagio immaginabile per un giovane orgoglioso come lui, cui si aggiunge l’umiliazione, di fronte ai parenti della moglie, di non saper mantenere la famiglia, in tempi in cui ci si attendeva che l’uomo assolvesse da solo a quell’obbligo materiale e morale. Nel 1921-1922 aderisce al gruppo romano di “Valori Plastici” e vive per qualche tempo a Roma, dove nel 1924 porta anche la moglie e la prima figlia, Nena.
E’ in questo periodo che espone col gruppo del “Novecento Italiano”, già conosciuto durante il soggiorno milanese. Nel 1929, alla seconda mostra del gruppo, presenta uno dei suoi capolavori: Il figliol prodigo, 1927. L’opera, che poi sarà acquistata dal conte Arturo Ottolenghi di Acqui Terme e sarà da lui legata al cinquecentesco ex Ospedale di Santa Maria Maggiore della città, ristrutturato da Marcello Piacentini, guardava ai romani e ai greci ma affondava anche le radici nel rapporto conflittuale dell’artista col padre e nella sua stessa esistenza nomade, divisa tra troppi luoghi e nostalgica di un impossibile ritorno. Nascono in questo periodo anche le sue figure di donne sensuali e quasi vive, come La Pisana, il primo nudo a grandezza naturale che esegue, ispirata all’omonima protagonista del romanzo di Nievo e gioiello di uno dei salotti di Villa Ottolenghi ad Acqui.
La terza parte del libro (“La stagione del canto”, 1930-1937) racconta la stagione più felice della vita di Martini. E’ una felicità espressiva ma anche esistenziale, legata all’incontro con la giovane Egle che gli rimarrà vicina fino alla morte, anche se l’artista non abbandonerà mai Brigida e i figli Nena e Antonio. L’artista stesso chiama questo periodo “la stagione del canto”: “Con l’incontro di lei, Egle, mi è venuta una specie di accettazione della vita e ho cantato”.
In questo periodo, a Vado Ligure, all’ILVA Refrattari, potrà impiantare uno studio nella fabbrica. In quegli enormi spazi potrà modellare e cuocere direttamente le terrecotte di grandi dimensioni senza doverle spostare.
Nel 1931 Martini vince il I premio alla Quadriennale di Roma, che era allora di ben 100.000 lire (in un’Italia che cantava “Se potessi avere mille lire al mese”). Nel 1933 si trasferisce definitivamente a Milano,dove pur tra vari soggiorni altrove,vivrà fino al 1941 e dove morirà nel 1947.
Nascono in quel periodo alcuni capolavori assoluti come le due versioni dell’“Adamo ed Eva”, una in pietra di Finale e l’altra in conglomerato e bronzo di 300 cm di altezza del 1931 / 32, il magico altorilievo in bronzo “Il Sogno” del 1931, il Leone in pietra rossa del 1934 ed i celeberrimi Leoni di Monterosso del 1935, che risentono delle suggestioni delle chimere etrusche ed assiro-babilonesi, il bronzo del “Tobiolo” del 1934, sul filo dell’acqua della grande piscina di O. Wedekind, tutti magicamente e sapientemente racchiusi in quella celebre Acropoli delle Arti di Villa Ottolenghi, nata da un progetto degli architetti D’Amato, Vaccaro, Rapisardi e Piacentini ed inframezzati ai celebri giardini realizzati da Pietro Porcinai, che da alcuni anni sono location del Premio Acqui Ambiente e di prestigiose iniziative dell’Acqui Storia. Ma sono di quegli anni altre opere pubbliche famose come la statua della Minerva a Roma, all’Università, i bassorilievi della Giustizia Corporativa per il Palazzo di Giustizia di Milano del 1937 e quelli per l’Arengario del 1940 e il monumento a Tito Livio in marmo del 1942 per l’Università di Padova.
La quarta e ultima parte del libro è invece la più drammatica. Seguiamo l’artista nella sua scoperta del marmo a Carrara (un materiale che prima non aveva mai voluto affrontare con convinzione), ma anche nella concezione, che matura in questo periodo, di una “morte della scultura”. Con la caduta del fascismo e la disfatta dell’Italia crollano tanti sogni ed illusioni e la scultura non potrà più narrare e rappresentare la realtà. Nel 1945 a Venezia, dove era stato chiamato dal 1942 a insegnare all’Accademia di Belle Arti, pubblica il volume La scultura lingua morta (anche se intendeva piuttosto la morte della fredda e celebrativa statuaria).
Sempre nel 1945 deve subire l’umiliazione di un processo di epurazione per aver aderito con passione ed essere sempre stato spiritualmente vicino al fascismo (significativi i suoi 18 bozzetti scultorei delle Storie del Fascismo del 1937, poi distrutti). Ne esce assolto, ma distrutto. Il processo, come scrive Orio Vergani che gli era amico,“lo aveva stroncato. Si sentiva ‘demolito’ moralmente, oltreché fisicamente.
Va a vivere con la famiglia del celebre architetto designer Gio Ponti, ma inizia a bere. Muore il 22 marzo 1947 a seguito di una probabile trombosi cerebrale.
Martini è stato il maggior scultore italiano del Novecento, e oltre alle sculture in bronzo, pietra e marmo, ha portato la terracotta a un’inaudita misura monumentale. Ha rivoluzionato i canoni della scultura, affiancando alla tradizionale figura eretta o giacente quella prona, inginocchiata, carponi, sospesa nell’aria o sott’acqua, spesso inserita innovativamente in una sorta di teatrino o scatola magica. Ma soprattutto ha saputo creare tante figure indimenticabili, sofferte, dolenti o virilmente impavide, con un’inesauribile capacità narrativa e fantastica.