Sei morto così, senza nome e senza miracolo
Ieri la tragedia sulla sponda del Sesia, tra Candia Lomellina e Terranova, in cui ha perso la vita un ragazzo di 24 anni
Era una persona.
L’impressione è sempre la stessa, quando ti muovi con questa fretta.
È finita male. Corri a raccontare una storia e lo sai già, o lo senti, che lo farai solo perché è già finita. E non è finita come nelle favole, con un colpo di scena, con un miracolo.
Imbocco la stradina per scendere alla base del ponte, lo stesso sotto il quale ruggiva potente il fiume due mesi fa. Un cartello, beffardo e impolverato dall’estate, ammonisce: la balneazione è vietata.
Solo una settimana prima ero passato lì sopra. Era la stessa ora, o giù di lì. Una mezza dozzina di persone stava lì sotto a rinfrescarsi: qualcuno in acqua, qualcuno a riva. Stranieri. Cosa vuoi che ne sappiano del Sesia, delle correnti traditrici. Cosa vuoi che ne sappiano dell’italiano.
Fa un caldo tremendo oggi in riva al fiume. I Vigili del Fuoco si affannano, gli elicotteri atterrano. Un ragazzo pakistano, jeans e camicia bianca, bella presenza, guarda l’acqua. Gli occhi sbarrati indicano ovunque e da nessuna parte. Il giovane che stanno cercando era arrivato con lui quel pomeriggio. Le loro bici sono ancora lì, a riva, legate insieme.
«Come si chiama il tuo amico?» chiede un carabiniere, facendosi aiutare da un traduttore improvvisato. Difficile anche solo lo spelling, nemmeno parlano la stessa lingua.
In queste terre d’acqua tra Lombardia e Piemonte si sono trovati, ma uno veniva da uno Stato, da un idioma, da una tradizione; l’altro, da un’altra. Erano lì magari solo per quel giorno, con più anni davanti che dietro, a cercare un po’ di fresco.
Quando il corpo esce dall’acqua, chi non conosce questi piloni, questi ghiaieti, queste anse e lanche rimane stupito. Lì, dove l’acqua sorride tra le pietre e ti verrebbe da provarci ad attraversare a piedi, una persona è sprofondata. Un camino nel fiume, una corrente insidiosa, un braccio alzato in cerca di aiuto. Scomparso per oltre un’ora, a un metro dalla riva.
Fa caldo. Ho sete, ma l’esperienza aiuta: sono partito da casa con uno zainetto, dentro ho una borraccia. Chissà quanta acqua ha bevuto quel ragazzo. Sembra abbia qualche anno in meno di me; lì, sulle pietre, invece ne ha poco più della metà. Lo scoprirò solo dopo.
La storia è già finita. Lo so io, lo sa chi mi sta vicino. Lo sanno anche i Vigili del Fuoco, che si alternano nel massaggio cardiaco per lunghi minuti. Pompano disperati, la fronte imperlata di sudore. Si danno il cambio, in attesa che qualcuno possa dire loro: «Smettetela, è finita». Ma non c’è nessuno a farlo. Insistono, perché certe cose non le fai guardando l’orologio.
Il ragazzo in camicia bianca non distoglie lo sguardo. Chissà se anche lui sa che è già finita.
I minuti diventano decine, poi un’ora. Poi finisce davvero.
Che storia è quella in cui uno parte dall’Afghanistan e a 24 anni muore a Ponte Sesia, magari mentre ancora stava aspettando l’occasione di iniziarla, la sua vita?
«Come si chiamava?» chiedo, senza troppe speranze, alle forze dell’ordine.
Niente da fare. Niente nome. Due lettere e due punti: iniziali. Non possono dire altro, i Carabinieri sul posto. Bravi professionisti, ragazzi come lui, coetanei. Stanno facendo il loro lavoro con impegno e umanità. Dopo un po’, ho imparato a riconoscerle, le persone per bene. O almeno ho la presunzione di saperlo fare.
Niente nome, però. Non possono.
Un nome e un cognome afghani non avrebbero acceso nessuna lampadina, né in me né — ne sono certo — in nessuno di voi.
Però, cazzo, ci ho pensato andando via, mentre col tergicristallo lavavo la polvere dal parabrezza dell’auto.
Senza un nome è quasi come se non fosse morta una persona, un essere umano.
Come se tenessimo questo dolore lontano.
Come quando dall’altra parte del mondo cade un aereo e quasi tiriamo un sospiro di sollievo scoprendo che a bordo non c’erano italiani.